«Prospettiva Esse – 2000 n. 2/3»
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EDITORIALE
di Livio Ferrari
La vita di questi giorni scorre frenetica fuori che sembra più allegra e frizzante del solito. Ci sono le feste di Natale e le luci si accendono ancora una volta su strade e piazze per richiamare gente, per vendere, per realizzare, in fondo sempre e solo per vivere.
Anche la Casa Circondariale di Rovigo ha un aspetto diverso, infatti si è rimessa un poco a nuovo, esternamente e qualcosa internamente, ma le luci e i clamori, quelli, non arrivano sin qui. Dentro ogni giorno è scandito dalle stesse regole e passa con i medesimi ritmi. Solo lo sgomento e il dolore per uno che “dentro” è morto, fanno sì che trascorra una giornata diversa! Sì, come in ogni angolo della terra, anche in carcere si muore, pur se è sconfortante il pensiero di una vita che si ferma in un luogo che in qualche maniera la nega, la limita, e che dovrebbe essere di passaggio, per servire, tra l’altro, a un’esistenza diversa, se possibile migliore.
E come per la festa, anche per la morte non giungono segnali da parte di chi sta fuori, né telegrammi, né fiori, né opere di bene! La distanza tra il territorio e il carcere è sempre troppo grande che nemmeno lo spezzarsi di una giovane vita riesce a scalfire.
Certo il muro di cinta non aiuta e il progetto di costruire un nuovo istituto in periferia tra i tanti effetti ne avrà uno di certo non secondario: quello di scavare un solco ancora più profondo tra gli abitanti della città libera e coloro che stanno in quella reclusa.
Questa affermazione è supportata dall’evidenza dei fatti, cito il più facile nel mio caso. E’ sintomatico ed emblematico come tuttora, infatti, noi volontari siamo percepiti da coloro con i quali veniamo a contatto nella nostra quotidianità. La curiosità soprattutto, a volte lo scetticismo, altre l’ammirazione, sono le reazioni conseguenti alla notizia del nostro impegno, raramente avviene invece il coinvolgimento. Tutto questo specialmente per la difficoltà di capire, tra stereotipi e preconcetti che accompagnano il pianeta carcere, e la paura di una umanità che ha espresso la parte peggiore di sè, di cui si preferisce, se possibile, non ricordarsene. Uno degli obbiettivi della presenza del volontariato nelle carceri è quello di ridurre il più possibile la distanza tra il dentro e il fuori, attraverso percorsi di coscienza e conoscenza, per alimentare modalità di “riabbraccio” nei confronti di uomini e donne che, consci della propria storia, hanno un profondo desiderio di riappropriarsi della loro dignità e confondersi in quelle luci e suoni che la vita ogni giorno propone.
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“Biotech”: business o innovazione scientifica
Ho cercato di immaginare, in un prossimo futuro, di incontrare nel percorso della vita, un vecchio amico e che, naturalmente spinto dalla nostalgia dei ricordi del passato, lo intrattengo parlando della nostra gioventù, delle amicizie comuni, di tutto quello che due amici di “antica” data rammentano.
Ma con il passare dal tempo, cresce in me un forte sentore di disagio, c’è qualcosa di sfuggente, di freddo, addirittura di non umano nella persona che mi sta di fronte; gli tocco il braccio come per spronarlo, e mi accorgo che per tutto il tempo, ho parlato con un “clone”, un replicante del mio amico.
Quanto ho detto, potrà anche sembrare un paradosso, forse un tempo addirittura di fantascienza, ma ormai è in uso parlare frequentemente di biotecnologia, scienza che modifica geneticamente gli organismi. Il CNR sostiene che per conoscere gli effetti negativi sulla salute umana degli alimenti transgenici occorreranno circa 10 anni; se si tiene presente che molti tumori hanno una lunga incubazione, i sospetti sono giustificati.
Le polemiche tra i ferventi sostenitori della ricerca e le forze opposte alla manipolazione genetica, sono all’ordine dei giorno; i primi ritengono che in agricoltura si ottengono rese più alte con un basso uso di pesticidi, le colture seminate con prodotti biotecnologici riescono ad ottenere piante che crescono più in fretta, più resistenti ai pesticidi, al freddo, agli insetti, più ricche di sapore, e a lunga conservazione. Gli animali producono più latte e più carne.
Gli oppositori sostengono, che i prodotti modificati geneticamente, potrebbero essere tossici o allergici per l’uomo. Si rischia la creazione di superpiante o superinsetti, resistenti agli insetticidi o agli erbicidi, o che possano inquinare altre piante coi pollini.
Comunque sia, tra mille polemiche, tra scontri delle due fazioni, in Italia ci sono 250 campi “biotech” e ben 210 imprese biotecnologiche, con un fatturato che va dai 250 miliardi del 1989, ai 4.000 miliardi del 2000. Business?
Nei cereali geneticamente modificati l’inserimento di un gene denominato “terminator”, causa la sterilità delle piantine, che non potendosi riprodurre devono essere ricomprate dopo un anno, e “guarda caso” nei paesi occidentali, intanto, l’infertilità di coppia interessa il 20%, della popolazione.
Non sappiamo, se esiste una connessione fra i due fenomeni, nel dubbio io continuo ad alimentarmi con prodotti naturali.
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Udite, udite!
Udite, udite! “adesso concederanno ai carcerati anche la possibilità di portarsi le loro donne in cella per farci l’amore. Ma dove andremo a finire? Ma cosa vogliono ancora? Ma non gli avevano già concesso la televisione a colori? Ora anche le donne? E cosa chiederanno domani?”
Ecco la sintesi dei mormorii che le cosiddette persone benpensanti faranno circolare dopo aver appreso che in Parlamento, dopo essere stata cassata dal nuovo regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario, fra le nuovi leggi in discussione, ce n’è una sulla concessione della “affettività in carcere”. Il pensiero di molti potrebbe essere “ora quei mostri assatanati potranno finalmente dare libero sfogo ai loro più bassi istinti su quelle povere malcapitate”. E’ risaputo, infatti, che la maggior parte delle persone ritiene il carcere il luogo della giusta punizione, alla quale deve soggiacere quello che ha sbagliato e ha commesso un reato.
Il movimento di pensiero che cerca di coinvolgere sempre più persone sensibilizzandole sul problema dell’isolamento dei detenuti dalla società esterna è troppo recente e, perciò, non ha avuto ancora efficacia nei suoi intenti. Ci vorrà ancora tantissimo tempo prima che la gente consideri nella loro vera accezione le prigioni, attuali luoghi di “rieducazione”, sia sociale che individuale. Per il momento le carceri sono quei lager nei quali sbattere i rifiuti della società e dimenticarsi di loro, delegando all’apparato burocratico dell’amministrazione penitenziaria la gestione di tutto quanto concerne l’esecuzione penale, che riguarda uomini e donne che la società troppo spesso preferisce dimenticare.
Ora c’è la proposta di legge di cui parlavo all’inizio. Contrariamente a quanto si può pensare non tutti i detenuti ne sono entusiasti. Coloro che non sono favorevoli a questa proposta basano il loro disappunto ribadendo il concetto del rispetto della propria dignità e quella della congiunta. Con quale spirito - si chiedono - può essere richiesto alla propria moglie o convivente o fidanzata di accettare di percorrere quel tratto di istituto, che inevitabilmente dovrà attraversare, sotto gli sguardi allusivi e carichi di sottintesi maliziosi degli agenti di polizia preposti alla sorveglianza?
Dal momento stesso che una persona si trova in carcere ha coinvolto nella sua disavventura, purtroppo, anche la propria compagna e, se in diversi casi viene da questa abbandonato, per coloro che decidono di continuare a stare al fianco del proprio uomo, accettando di condividere oltre alla distanza l’astinenza sessuale, una proposta di legge di questo genere viene attesa con giustificata impazienza.
Il detenuto, la cui compagna ha deciso di condividere la tragedia della carcerazione, porta dentro sè la consapevolezza dell’enorme sacrificio che questa ha accettato di sopportare per rimanergli vicino.
In quelle sporadiche occasioni in cui riesce a comunicare con lei, come nell’ora di colloquio settimanale, deve già fare un enorme sforzo per cercare di apparire tranquillo, mentre in realtà sta vivendo una terribile battaglia dentro di sè. Nel suo intimo si trova continuamente a dover scegliere tra l’accettazione della vicinanza con la conseguenza dell’astinenza o il troncare definitivamente il rapporto, per eliminare tutto quel dolore. Ad ogni colloquio si rinnovano sia i sentimenti di amore od affetto sui quali si era formato il rapporto, sia quelle terribili ansie che la forzata lontananza provoca continuamente.
Spesso è proprio il detenuto che prende la decisione di troncare il rapporto, anche se può apparire assurdo che sia proprio lui a farlo, scontrandosi spesso contro la volontà della compagna che è invece disposta al sacrificio per amore.
Ma chi ha vissuto questa esperienza sa che non è poi così assurdo rinunciare ai propri affetti ed accettare la sofferenza che questa separazione comporta, perchè anche più dolorosa e drammatica è la sofferenza e consapevolezza di aver trascinato nel fango, in vicende assurde e squallide, la propria donna a cui si voleva donare ben altro.
Ecco, in tutta questa altalena di sentimenti, si pone una speranza di “affettività”.
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Pena di morte
Pensa che in Italia era prevista nelle legislazioni preunitarie, con esclusione del codice penale di Toscana e nel codice sardo del 1859. Estesa a tutto lo stato italiano dopo l’Unità, a eccezione della Toscana, fu abrogata dal codice Zanardelli del 1889, e poi reintrodotta nel 1926 dal regime fascista per i più gravi reati politici.
Il codice Rocco, ispirato in materia di pena ai principi dello stato totalitario, la estese anche ad alcuni reati comuni, quali l’omicidio aggravato, la strage, ecc. La pena veniva eseguita mediante fucilazione del condannato in uno stabilimento penitenziario e, normalmente, non era pubblica.
Nel 1944 fu abolita per i reati previsti dal codice penale, ma nello stesso anno fu ripristinata per i delitti più gravi di fascismo e di “collaborazionismo” con i nazifascisti e, nel 1945, per i più gravi episodi di banditismo.
Finalmente, nel 1948, con l’entrata in vigore della costituzione repubblicana, la pena di morte è stata esplicitamente abolita e sostituita con l’ergastolo, con la sola eccezione delle ipotesi previste dal codice penale militare di guerra, anche queste fatte oggetto, a partire dai primi anni Novanta, di una diffusa contestazione in ambienti pacifisti tradottasi in una iniziativa parlamentare di modifica all’art.27, c. IV, cost. Nell’attuale ordinamento quindi la pena capitale non potrebbe essere reintrodotta se non a seguito di una modifica della costituzione. La pena di morte è sempre stata oggetto di un vastissimo e contrastato dibattito. I suoi sostenitori si appellano al principio della “felicità dei più”, che dovrebbe essere garantita dallo stato, anche attraverso l’eliminazione fisica di coloro che mettono a repentaglio, con i loro crimini, i principi fondamentali della convivenza sociale.
Le ragioni vere, peraltro, per cui la pena capitale è tuttora in vigore in molti stati, anche di democrazia occidentale, vanno ricercate nella sua funzione, spesso più demagogica che non di effettiva controspinta al crimine, di costituire una risposta alla criminalità più pericolosa e violenta. Essa è inoltre, da sempre, uno degli strumenti di lotta privilegiati nei regimi totalitari contro il dissenso politico, anche se non manifestato in termini di criminalità politica. Le ragioni che portano, invece, a respingere come disumana, ingiusta ed incivile questa pena sono di varia natura. In primo luogo essa è inutile, non essendo assolutamente provato che produca una diminuzione dei crimini più gravi, mentre alcuni studi hanno fornito una dimostrazione addirittura contraria. Inoltre appare del tutto evidente come lo stato abbia ben altri strumenti per rendere inoffensivi anche i criminali più pericolosi per la società, senza dover ricorrere alla loro eliminazione fisica. Un altro grave problema è costituito dagli errori giudiziari, che con la pena capitale divengono irreparabili. Infine, vi sono ragioni di ordine morale, religioso e filosofico, che portano a ritenere che comunque lo stato non possa in nessun caso disporre della vita umana.
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Storie chiuse che escono
Meridiano Zero organizza un concorso letterario con uno scopo ben preciso: far uscire le storie di chi non può uscire, di prigione! Storie chiuse, storie che escono è il primo concorso letterario italiano e, quanto ci risulta, il primo al mondo, riservato ad autori ed autrici detenuti. La capacità e la necessità di comunicare di questo mondo a parte, testimoniate dall’enorme quantità di lettere che da esso parte ogni giorno, trova nella scrittura forse il mezzo più idoneo. Una scrittura che, inevitabilmente, diventa in molti casi pratica letteraria. Per questo nasce Storie chiuse, storie che escono: per scoprire l’ambito di quella letteratura che nasce dal e nel carcere, anche se non necessariamente sul carcere. Storie vere, inventate, autobiografiche e non, senza distinzioni di genere... Ciò che si propongono gli organizzatori di questa iniziativa è esplorare non un particolare tema, ma un particolare stato di scrittura. Far uscire l’immaginario e la voce di chi scrive dentro e vuole, in qualche modo, farsi sentire fuori. Gli esempi illustri di scrittori carcerati non mancano: da Dostoevskij delle Memorie da una casa morta al Jean Genet del Diario del ladro. Sembra che la solitudine della cella e la necessità di reagire alla privazione della libertà abbiano prodotto pagine fra le più lucide e intense. I responsabili di Meridiano Zero sono sicuri che tuttora, anche senza chiamarsi Dostoevskij o Genet, queste pagine vengano scritte. Meridiano Zero vuole leggerle e, possibilmente, pubblicarle. INFORMAZIONI: Meridiano Zero Via Umberto Giordano, 5 - 35132 Padova - Tel. e fax 049.8644704 - e-mail: zero@meridainozero.it
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Quando la pena capitale non fa più notizia
Il caso Barnabei: uno scrittore racconta in presa diretta il silenzio della stampa americana sulla condanna a morte che ha scandalizzato l’Europa.
Dalle parti di New York City, 15 settembre 2000. Come ogni mattina il pacchetto di plastica blu che contiene il New York Times vola dai furgoni fino alla soglia di milioni di case. Non bisogna pensare solo alla metropoli dei grattacieli e palazzoni, ma alle miriadi di villette più o meno addensate sul territorio secondo la ricchezza dei proprietari: più c’è spazio intorno, più l’appezzamento di erba è grande e più il reddito è alto. Non ci sono staccionate o cancelli a dividere le proprietà e a difenderle, tutto è diviso e protetto da un diffuso senso del rispetto della casa privata e della cosa altrui, e dalla legge, ovviamente e forse pure dall’idea che dentro le case vi sia qualche arma. Recuperare il giornale sul marciapiede che corre davanti casa, o sul prato – che venerdì 15 è bagnato dalla pioggia – è una delle prime cose che si fanno al mattino. Il New York Times e il giornale locale, in sacchetti diversi e sempre lanciati in posti diversi, miracolosamente asciutti. Anche a cercare bene nel gran numero di fascicoli dei quali i due giornali sono composti, non si riesce a sapere se hanno ammazzato Barnabei o no. In una colonnina si parla di un senatore democratico che propone modifiche sull’accesso alle prove del DNA nei casi di pena capitale, ma niente su Barnabei e niente sul fatto che in Europa, e soprattutto in Italia vi sia stata una grande mobilitazione su quel caso. Non una parola, non un commento. Per sapere che cosa sia successo la sera prima, per sapere se il Governatore abbia concesso o meno il rinvio dell’esecuzione, per sapere se Barnabei è vivo o morto, la cosa più semplice è accendere il computer e navigare ai siti dei giornali italiani dove la risposta si trova facilmente, in evidenza. In tutti questi milioni di casette monofamiliari sparse su un territorio vasto, così grande che ci vogliono o giorni di viaggio in automobile o ore in aereo per raggiungerle, nessuno o quasi sa del caso Barnabei, e pochissimi si interessano. Di fatto la notizia è passata da qualche parte, anche una TV nazionale ne ha parlato. C’è in corso un blando dibattito sul tema, e uno degli argomenti più forti contro la pena di morte è il costo che lo Stato sostiene per portare l’accusato alla camera delle esecuzioni. E serpeggia anche una contestazione da brivido a questo argomento. C’è cioè chi dice che processi più sbrigativi costerebbero meno. Comunque sia, osservando le diverse dimensioni in cui il caso è stato tratto in Europa, e facendo le proporzioni, non si può affatto dire che negli USA questa sia una notizia. Si tratta invece di un silenzio, che proporzionato al clamore europeo diventa agghiacciante. Qui la pena capitale diventa una punizione inflitta e accettata come una detenzione per evasione fiscale o una grossa multa per eccesso di velocità. Non se ne scrive sui giornali, non è un argomento in discussione. Solo il 22 settembre 2000, finalmente, il New York Times dedica ampio spazio alla questione sulla pena di morte. Il pezzo comincia in prima pagine e il senso di tutto l’articolo che riporta una accurata inchiesta in tre quarti di pagina interna è : nei 12 stati USA dove la pena di morte non c’è, ci sono meno casi di omicidio che negli altri stati. Nello stesso si riporta la statistica che dice che comunque anche in quegli stati c’è un 60 per cento di popolo favorevole alla pena di morte. Venerdì 15 settembre, nel primo traffico di un mattino piovoso, nelle radio sintonizzate sulle previsioni del tempo, nei sacchetti blu lanciati verso le villette, nella massa roboante di trasmissioni televisive sovrabbondanti di avvisi per gli acquisti, si può sentire il vuoto, la parte mancante. Si può individuare ciò che c’è in comune e trovare per differenza ciò che è diverso sui due lati dell’oceano Atlantico. Si può notare che la pressione dell’Europa sugli USA in certi argomenti non conta più di tanto, non scalfisce nemmeno l’interesse dei media, e si può anche indovinare che nel flusso di cultura e beni che arrivano dagli USA verso l’Europa e in particolare verso l’Italia, possa infiltrarsi e prendere corpo quel modello che proprio nei giorni scorsi è stato tanto contestato. Viene voglia di consigliare ai tanti ed entusiastici consumatori di ogni cosa che arriva dagli USA, di leggere meglio il testo sull’etichetta. Quando c’è.
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La notizia
Un sondaggio effettuato dalla Doxa con riferimento ad un campione di 2005 persone italiane adulte, ha rilevato che il 46% è favorevole alla pena di morte e, che al pari, un altro 46% è contrario ad essa. Il restante 8% non sa dichiararsi, è indeciso.
Ma è proprio questa esigua percentuale di indecisi a pronunciarsi che è inquietante. Senza ombra di dubbio è la più volubile e propensa a cavalcare l’onda di sensazioni forti che possono instaurarsi negli animi a fronte di avvenimenti di cronaca particolari. E’ da questa esigua percentuale fra le due masse statiche di opinione che ci si può attendere una forte reazione contraria nel momento culmine di un’esecuzione spettacolare; ma ugualmente, ci si può anche attendere una richiesta accanita di esecuzioni, quando la “notizia criminis” martella le coscienze.
Altre curiosità sulle opinioni
Gli uomini sono più favorevoli alla pena di morte, rispetto alle donne, i giovani sono più contrari, rispetto agli anziani; le persone colte, una maggioranza, sono contrarie (tra i laureati la percentuale dei contrari è superiore all’80%); la percentuale dei contrari alla pena di morte del nord e del centro è superiore a quella rilevata al sud.
Riflessioni
La prima condizione per essere “uomo/individuo” è quella di essere in possesso di tutti i requisiti vitali, cioè essere vivo;
tra morte e vita vi è la reciprocità dei contrari; morte e vita sono due eventi inseparabili, sono il nucleo della storia di un uomo;
la vita è un gioco di situazioni inconsapevoli; la morte è stare all’interno del gioco della vita;
a nessuno è concesso di avere potere nel determinare/sentenziare l’origine della propria vita.
Qual’è il valore di una vita?
Molto esiguo se si pensa che il risultato, per tendenza, a cui aspira la vita, come risultato finale ha sempre la morte. La vita è l’unica condizione non spendibile/ipotecabile nell’evolversi umano, infatti l’uomo fisicamente, come un segmento, esiste nello spazio di due punti: con origine nel punto vita e con fine nel punto morte. La sublimazione della vita è la morte.
Quesito e riflessioni
Ma se all’uomo non è concesso di determinare la propria vita, può egli determinare, con giustizia, la morte altrui? Ciò che non è concesso all’uomo non è per l’uomo, cioè è inumano! Non sempre “inumano” sta a significare lo stato inferiore all’uomo!
Considerazioni “reato”
Il sostantivo “reato” scaglia nella comprensione il concetto di “violazione”. Il reato di un uomo, non potrà che essere la violazione a una “legge” di un uomo. Se un uomo è ciò che viene compreso nell’ipotetico segmento “vita–morte”, la sua legge non “potrà/dovrà” mai prevaricare i due punti principali – inizio, fine; anche ciò che prevarica i confini di un uomo è inumano. Inumano non vuol dire ingiusto, ma fuori dell’uomo: “ciò che non è concesso all’uomo”.
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Bambini maltrattati: i dati di telefono azzurro
Le chiamate: fra luglio e dicembre 1999, il servizio telefonico di telefono azzurro contro i maltrattamenti e gli abusi ai danni di minori ha ricevuto 328.084 chiamate e ha fornito 15.113 consulenze, di cui 2.935 per problematiche gravi (che l’ente definisce “la punta dell’ iceberg” di fenomeni di disagio in gran parte sommersi). Le provenienze : le richieste d’aiuto provengono soprattutto dalla Lombardia, dalla Campania, dalla Puglia e dalla Sicilia, seguite dal Veneto e dalla Calabria. Le richieste d’aiuto per abuso provengono soprattutto dalla Campania e dalla Puglia, seguite da Lazio e Sicilia e poi dalla Lombardia. I disagi riferiti sono suddivisibili per “macrocategorie”. I problemi relazionali 29%, problemi del nucleo familiare 25%, abusi 19%, solitudine 10%, sfruttamento 1%, altri problemi 16%. Fra i problemi specifici maggiormente riferiti: la difficoltà a dialogare con i genitori, la difficoltà a dialogare con i coetanei, problemi sentimentali ed abusi fisici e sessuali. Le classi d’età e il disagio : i bambini di 4 – 10 anni riferiscono soprattutto problemi relazionali con i genitori (24%) ed abusi fisici (22 %); fra gli 11 ed i 14 anni ancora problemi relazionali con i genitori (25%) e con i coetanei dell’altro sesso (18 %); i ragazzi di 15 – 17 anni ancora problemi relazionali con i genitori (31%) e con i coetanei dell’altro sesso (16 %). Gli abusi: all’interno della macrocategoria abusi (19 % di tutti i disagi riferiti), il 70% composto dagli abusi fisici, il 17% di abusi sessuali, il 9 % di casi di trascuratezza e il 4% di abusi psicologici. Per quanto riguarda le tipologie dell’abusante (dati riferiti al 1998), nel 39% dei casi si tratta del padre, nel 32% della madre, nel 4% del fratello / sorella, nel 10% padre/madre o dei genitori adottivi/affidatari; nel 12 % dei casi si tratta di un amico/conoscente, nel 4% di un insegnante o di altre specifiche categorie professionali, nel 6% di un’”altra “ persona; solo il 5% dei casi è riferibile a estranei (il totale delle singole percentuali è superiore a 100 perché in alcuni casi vi può essere più di un abusante).
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Il carcere oggi
Un carcere, che la società riconosca come parte di sé, come suo figlio legittimo, perché Essa stessa lo genera, ne determina la necessità. Una società la quale, dunque, si interroghi, con inquietudine critica, sulle origini, il fondamento, le funzioni della pena, da dove nasca e quali limiti incontri il diritto di un uomo di punire altri uomini. Acquisendo sempre maggior consapevolezza di alcune verità di sconvolgente evidenza e semplicità, come che gli strumenti del diritto servono a giudicare i gesti, talvolta le intenzioni, degli uomini, non la loro dignità, rispettabilità, moralità. Per cui nessuna condanna e nessuna sanzione possono marchiarli, imprimere sulle loro carni e sulla loro anima uno stigma, come di infamia e di vergogna. Giacché, come dice Humboldt, “l’onore di un uomo, la stima che di lui possono avere i suoi concittadini non cadono sotto l’autorità dello Stato”. E, nello stesso istante in cui egli finisce di espiare la pena inflittagli, vien meno la sua unica differenza dagli altri.
Che il dolore del castigo fine a se stesso non può cancellare e neanche attenuare il dolore del delitto, quindi è inutile, anzi, ancora peggio, soddisfa solo la parte oscura di noi, che chiede vendetta e gioisce del male degli altri. Mentre è vero che nella storia dell’umanità, certo non vincono coloro che uccidono, ma neanche coloro che uccidono chi ha ucciso. Ed è solo una illusione crudele e pericolosa immaginare che la società sia tanto più giusta, quanto più soffrono coloro i quali ne hanno violato le leggi o sono accusati di averle violate. Mentre è dolorosamente vero che una pena, la quale ecceda la misura della più stretta necessità, è una pena giusta più un’altra pena. Che quanta più è la gente mandata in prigione, tanti più sono in essa gli autori di un reato ma anche gli innocenti. E, comunque, chiudere in gabbia un uomo per proteggere la società sembra, per non pochi versi, una confessione di impotenza di fronte al crimine.
Che per quanti costi sociali il delitto comporti, la repressione di esso non ne comporta di meno. E non guadagneremo nulla se la repressione sarà così estesa o così aspra che si debba temere lo Stato più di chi ne viola le leggi.
Infine, che il principale problema delle prigioni è la prigione stessa, come, del resto, per ogni altra pena è la stessa pena. E che, comunque, il carcere non è la forma immutabile di una punizione consegnata, come un feticcio o un idolo, alla venerazione degli uomini da ragioni trascendenti e misteriose e destinata a chiudere la storia delle loro pene, ma soltanto una forma possibile, perfettibile e superabile, propria di una fase di quella storia, la quale è in continua evoluzione, o, malauguratamente, verso una direzione di regresso, quindi verso castighi meno civili della prigione, o secondo il nostro augurio ed il nostro impegno, verso una direzione di progresso, quindi verso castighi più civili della prigione.
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Al via il regolamento sulle carceri
Per i detenuti sarà più facile colloquiare con i parenti, ricevere un’istruzione, professare il proprio credo religioso. E’ quanto stabilisce il nuovo regolamento sulle carceri in vigore da mercoledì 6 settembre. Approvato dal Consiglio dei Ministri il 16 giugno 2000, il provvedimento reca “norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà”, che sostituisce l’analogo provvedimento del 1976 recependo i principi più avanzati espressi dalla Corte costituzionale.
Nel regolamento si prevedono condizioni igienico-sanitarie più moderne e personali. Ci saranno poi forme di trattamento più rispettose della personalità del detenuto, modalità di ingresso meno traumatiche, programmi di trattamento, mediatori culturali per stranieri. E’ previsto anche il rafforzamento delle modalità di lavoro extracarcerario, la possibilità di far gestire le lavorazioni e i servizi interni a cooperative di solidarietà sociale e di promuovere una attività di produzione interna per soddisfare il fabbisogno degli istituti penitenziari.
Quanto all’istruzione, la scuola dell’obbligo dovrà essere diffusa in tutti gli istituti penitenziari e corsi di scuola secondaria e universitari dovranno essere assicurati a chi intende frequentarli. Per quanto riguarda l’aspetto religioso, saranno attrezzati appositi locali e sarà consentita la presenza di ministri di culto per la celebrazione dei riti anche diversi da quelli cattolici. Per le misure alternative, saranno rafforzate le modalità di affidamento e saranno potenziate i servizi sociali esterni al carcere.
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Rieducazione e reinserimento del detenuto
Alle volte il carcere non è solo segregazione o emarginazione per il detenuto. Nella maggior parte dei casi, però, non è così. Quando situazioni che a priori non potrebbero essere valutate, appaiono nella vita carceraria del detenuto, inizia quel processo di cambiamento che porta gradatamente il detenuto a riscattarsi socialmente ed a reinserirsi nuovamente nel contesto sociale. Questo sta a dimostrare che non è utopia la riforma carceraria “Gozzini – Simeone”. Stefano di questo ha voluto parlarci, entrando vivamente nella sua vicenda umana di detenuto a Rovigo. Ci ha raccontato del rapporto con la sua compagna, della loro bambina, nata subito dopo il loro arresto. Del peso delle nuove responsabilità di genitori, degli aiuti avuti dagli operatori penitenziari, del lavoro in carcere, dell’entusiasmo e la voglia di fare che si hanno quando ci si accorge di essere in grado di mantenere gli impegni sociali e dei rapporti di fiducia con la società. Ci ha parlato e raccontato con entusiasmo che tutto questo gli è stato possibile proprio grazie alle riforme. Ha concluso facendoci intendere che la sua convinzione, relativa al fatto, che la maggior parte dei detenuti, se messi nelle sue condizioni, cioè di poter mantenere vivo, nonostante la reclusione in essere, il rapporto affettivo con la famiglia beneficiando dei periodici permessi premiali e, quindi, di poter continuare a mantenere attivo il proprio impegno verso la famiglia, potrebbe succedere proprio come a lui, che oggi si trova ad un buon livello di trasformazione personale e che si vede, già, proiettato verso i valori della libertà. semplice il cammino del reinserimento e tutto, si rivela fittizio, destinato a fallire o a soccombere per le realtà che non sono dipendenti dalle regole della riforma penitenziaria oppure che esulano dalle volontà stesse del detenuto. La riforma penitenziaria è ottima e l’unica ricerca di alcune correzioni nel testo legislativo, ci dice Stefano, va fatta nei metodi o negli accorgimenti che possono determinare quelle condizioni in cui uno può percorrere agevolmente la via del reinserimento nella società libera.
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Il carcere per l’extracomunitario
Il carcere per l’extracomunitario è prima di tutto un impatto con una cultura differente ed una lingua diversa. Chi abbandona il suo Paese per entrare in un’altra Nazione, in cerca di un po’ di fortuna, vive già una propria tragedia personale. Una delusione colma di emarginazione e disperazione. Sono entrato in un carcere e l’impatto è stato desolante. Mi sono scontrato con delle regole e della burocrazia che vige nei luoghi di detenzione.
Ho dovuto affrontare l’ostacolo della lingua, di cui non comprendo molti vocaboli, per potermi muovere all’interno di un carcere, per chiedere un colloquio, per poter acquistare un prodotto o per poter esprimere le proprie necessità si deve compilare degli appositi moduli; e chi non sa scrivere non si sa esprimere decentemente, non riesce a farsi comprendere, ha maggiore difficoltà a trovare uno spazio di vita decoroso all’interno di un carcere.
Per l’extracomunitario inoltre è molto più difficile mantenere i propri contatti con i suoi cari. Se si deve effettuare una semplice telefonata può diventare un’ardua impresa che nella maggior parte dei casi è destinata a fallire. Un altro grave problema per l’ extracomunitario è la quasi totale mancanza di lavoro e quindi dell’impossibilità di essere autosufficienti, per mantenersi economicamente, in quanto, oltretutto lontani dalle famiglie d’origine.
Inoltre per l’extracomunitario, il carcere, non è un luogo dove si sconta una pena, ma un posto dove continuare una lotta per la sopravvivenza.
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La vita del detenuto
La vita in carcere incide sull’esistenza di una persona a molti livelli. Livelli affettivi, sociali e molto probabilmente anche psicologici. La vita di un detenuto è una vita ristretta in spazi funzionalmente preordinati. Ci sono norme giuridiche e regolamenti in cui la detenzione di ognuno di noi trova riscontro. A grandi linee queste poche parole dovrebbero assolvere il compito di spiegare il carcere e la vita che in esso viene vissuta. Invece così non è, in quanto, ognuno di noi ha la sua storia, i suoi desideri e soprattutto diverse sono le colpe in espiazione. Quindi ognuno di noi vive l’esperienza carceraria in una dimensione assolutamente propria, benché ristretti in un medesimo luogo di detenzione. Tra di noi ci sono molte storie ed ognuna di esse vorrebbe essere raccontata. Nonostante la unicità individuale delle storie che portano un individuo in carcere, penso che possono essere divise in due tipologie principali : quella di chi è in esecuzione di pena e di chi è in attesa di giudizio. Sono storie diverse, perché sono diversi gli interessi che la permanenza in carcere toglie a ognuno di noi. Il carcere dovrebbe essere un luogo in cui la colpa e la pena inflitta vengono espiate. Dovrebbe essere, ma la realtà delle cose evidenzia che così non è; infatti quasi la metà dei reclusi nelle carceri del nostro Paese è in attesa di giudizio. E’ logico presupporre che finché uno non si sente defini-tivamente condannato, ogni suo pensiero è rivolto a ciò che era prima la sua vita e persegue ogni azione idonea a riacquistare la sua libertà. Chi di noi è già stato condannato definitivamente, invece, avendo già scontato un cospicuo periodo di carcerazione preventiva alla condanna, per le norme giuridiche che regolano l’esecuzione penale, è da subito, appena definitiva la sua condanna, nelle condizioni di trovare una alternativa al luogo di detenzione, per saldare il suo debito penale con la società. Se ora noi valutiamo che la pena della reclusione viene inflitta ad un individuo per due principali motivi: come deterrente a commettere nuovi reati e, come momento di ripensamento sui propri trascorsi criminali per progredire in una revisione e rieducazione che gli consentirà di ritornare a vivere nuovamente nella società, ci accorgiamo che per molti fattori invece, la pena della reclusione oggi, non riesce ad assolvere gli scopi per cui è inflitta. Infatti nonostante la durezza delle pene che vengono inflitte, al carcerato manca il momento dell’esecuzione penale come momento di revisione ulteriore. Mancando il momento della revisione del condannato a causa del lungo periodo di carcerazione preventiva già scontato, la pena inflitta non può assolvere nemmeno la sua funzione di deterrente alla commissione di nuovi reati. Questa penso sia la più grande tragedia che si vive oggi nelle carceri italiane. Sono arrivato a queste riflessioni, analizzando la mia vita e le molte situazioni che hanno concorso a farmi ritrovare molte volte ospite del carcere. E penso, anzi ne sono sicuro, che sono molti oggi i detenuti nelle mie stesse condizioni.. Questa è, in sintesi, la vita che il carcere oggi impone ad un detenuto. Un detenuto è prima di tutto una persona in cammino verso la sua libertà, i suoi affetti e le sue speranze. Avrei potuto condire questo racconto con qualche aneddoto sulla vita carceraria, ce ne sarebbero molti che potrebbero essere raccontati; alcuni sono pittoreschi, altri tragici ma sono tutte storie personali che concorrono ad arricchire questi posti di sofferenza con il loro bagaglio di umanità; il sentirle raccontate da un senso demodè e pittoresco, ma non rende una reale immagine del carcere e della pena. Una dualità questa che al momento è inscindibile.
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Ma perchè li chiamano ancora benefici?
Ultimamente giornali e televisione stanno facendo a gara, probabilmente per usi politici, nel trasmettere notizie riguardanti detenuti in misura alternativa che continuano a delinquere, francamente si tratta di sporadici casi se paragonati alle migliaia di persone che si sono rifatte una vita, come in politica anche nel nostro caso la maggioranza silenziosa non fa notizia. Tutto questo urlare dei giornalisti ha avuto i suoi frutti, ma nessuno si è degnato di farlo sapere all’opinione pubblica. Ormai il rigetto di qualsiasi tipo di istanza è all’ordine del giorno, l’affidamento in prova ai servizi è diventato una meteora, di detenzione domiciliare non ne parliamo, ma la cosa che più mi ha lasciato perplesso è stato il rigetto di istanze in comunità. Dicono che la Gozzini e la Simeone non sono state modificate, solo ufficialmente però, ufficiosamente lo sono state, eccome!!! Mi auguro che i lettori di questo articolo siano persone che non si fermino alla fatidica frase “ma chi te lo ha detto di andare a delinquere”. Come sicuramente avrete capito anch’io sono un beneficiario del giro di vite degli uffici di sorveglianza, ma non è la delusione o l’astio che mi ha portato a queste riflessioni. Mi sono fermato, anzi soffermato alle motivazioni del mio rigetto dell’affidamento e mi sono confrontato con altre persone a cui è stato negato. Nonostante io sia un privilegiato, ammesso al lavoro esterno da circa 6 mesi, ho trasgredito tempo fa ad una prescrizione impostami, questo lo sottolineo per correttezza, ma a mio avviso questo fatto se si fosse valutato con maggiore attenzione il mio percorso penitenziario poteva essere valutato con maggior elasticità. Mi è stato detto che non è stato la mancanza in se stessa che mi ha compromesso il beneficio ma il mio persistere nel voler trasgredire alle regole. Allora io penso che questa osservazione può andare bene per un laureando in giurisprudenza e per un allievo di una qualche Accademia, ma non per un uomo di 41 anni, 15 trascorsi in carcere e che cercando a fatica di mettere ordine nella sua vita, rivedendo i propri difetti e provando a correggerli, con una certa indulgenza nell’accettarsi. Su questo non voglio andare oltre, in quanto trovo che non si devono usare questi spazi per parlare troppo di se, anche se in qualche modo può rispecchiare l’attuale e corretto “modus liberandi”.
Corre voce, anzi possiamo dire corre certezza, che una persona che in qualche modo è tornata a delinquere difficilmente gli verrà data un’altra possibilità, ma di questo la società ne è a conoscenza? Il signor Rossi seduto al bar a bere un caffè è d’accordo nel voler costruire una società perfetta, una società tipo catena di montaggio dove un pezzo che presenta qualche sbavatura viene eliminato, o forse erano migliori le nostre vecchie officine artigianali dove nulla era scartato a priori senza aver fatto il possibile per recuperarlo? Credo sia molto difficile il compito che spetta agli operatori sociali ed ai vari uffici di sorveglianza, probabilmente la mancanza di personale ed il superlavoro non viene a nostro favore, però quando si deve decidere sul futuro di un uomo la questione è molto delicata. Un beneficio dato ad un detenuto non è solo un modo per uscire prima dal carcere ma è soprattutto una prova di fiducia, un modo per responsabilizzare persone, fargli capire che nonostante tutto la condanna è reinserimento e non solo repressione. Mi voglio ripetere nel dire che è un lavoro difficile giudicare chi merita e chi no, ma voglio aggiungere una provocazione che era di moda una volta e ora non è più attuale : “meglio 100 colpevoli fuori che un innocente in carcere”.
Voglio spendere due parole anche su un altro aspetto del variopinto mondo penitenziario, le tossi-codipendenze. Ho sentito che sono stati negati affidamenti o arresti, a persone che vivono il problema per entrare in comunità terapeutiche, io ho vissuto il problema in prima persona ed ora ne sono uscito grazie alle mie forze ed a persone che mi hanno dato fiducia, non da trascurare l’art.21. Ma ad una persona che mi è molto vicino è stato negato l’accesso in comunità nonostante una breve condanna motivando le varie volte che è scappata da queste strutture. Anche in questo caso non parlo del singolo, ma la mia osservazione raccoglie una miriade di situazioni analoghe. Lasciando un tossicodipendente in carcere forse preserviamo la società ma devastiamo maggiormente l’equilibrio psicologico già precario di quest’ultimo. Per esperienza posso dire che ognuno ha i suoi tempi ed i suoi modi per maturare, credo che non bisogna mai smettere di aver fiducia nel reinserimento di un tossicodipendente, il primo ad aver perso stima e fiducia di se stesso è proprio lui.
Sentirsi seguito, aiutato, e responsabilizzato nuovamente è uno stimolo per non fargli vedere sempre il buio davanti a se, a mio avviso deve essere un punto di orgoglio per operatori e magistrati essere riusciti a recuperare una persona con questi problemi.
Era molto che non scrivevo più su questo giornalino, mi ero impigrito mentalmente, mi auguro che la mia presunzione non dia fastidio a nessuno, anche perché non è questo lo scopo del mio articolo. Io ho sempre creduto che le critiche aiutano a riflettere, un detenuto quando si trova davanti ad un magistrato difficilmente riesce a dire quello che pensa, questo giornalino a mio avviso può servire anche a questo e per usare una frase fatta “a dare voce a chi non ne ha”. Mi scuso se sono stato troppo diretto, poco diplomatico, ma questo è il mio pensiero e se mai ci sarà la possibilità sono pronto ad aprire un tavolo di discussione su questi argomenti. Un saluto a tutti i miei compagni di cammino di un privilegiato art.21.
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Amnistia, indulto?!
Sembra un dilemma shakespeariano “essere o non essere”, “darlo o non darlo”, ma in realtà è delle nostre vite che devono decidere; se n’è parlato per mesi e mesi. Il grande Giubileo, il papa e la grazia ad Alì, rivolte di protesta nelle carceri, tutto auspicava a chissà quale grande risoluzione o meglio assoluzione per noi tutti, noi detenuti. I mesi passano, arrivano le ferie e tutto quel gran parlare (che ci faceva vedere ogni telegiornale, che finalmente aveva voce per noi) per sentire la bella notizia “amnistia”, tutto quel gran parlare è andato in ferie. Ora tutto è tornato alla normalità, il sovraffollamento delle carceri italiane ed i suoi problemi c’erano, ci sono e ci saranno. Ci chiediamo: il Governo e tutto il Parlamento per chi lavora? Per chi fa le leggi? Per dare soluzioni a quali problemi? E’ proprio vero che il carcere lo fanno solo i “poveracci” e stranieri, solo noi scontiamo le nostre pene, più o meno giuste! Noi tossicodipendenti che vendiamo la bustina per poterci fare, noi zingari che rubiamo per vivere e per tradizione. Certo, sono reati puniti dalla legge ma anni sei per undici grammi di eroina mi sembrano eccessivi. La differenza di chi non li paga proprio i reati, già, molti vanno in scadenza termine: tentato omicidio, uscita! Detenzione, armi e stupefacenti, uscita! Sfruttamento minori e prostituzione, uscita!Tutte per scadenza termine. Omicidio più tentato omicidio, concessi gli arresti domiciliari, sottolineiamo che più della metà di questi esempi, riguarda reati commessi da stranieri e a noi, con la nostra bustina o con la bicicletta rubata, gli arresti non ci vengono concessi, noi restiamo in carcere. Far passare un giorno, sì, un giorno, solo qui dentro, ad un giudice, ad un magistrato di sorveglianza, ad un politico e anche ad un educatore, solo così possono rendersi conto, quanto è tutto sbagliato ciò che fanno, o per meglio dire, ciò che noi facciamo e quello che pensano di noi. Rieducazione, rein-serimento nella società, no, non sappiamo che significato hanno qui queste parole, qui in carcere non esistono!
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Momenti di proiezione
Venerdì 14 aprile all’interno della Casa Circondariale di Rovigo è avvenuto qualcosa di insolito: le porte del carcere si sono aperte per far entrare gli studenti della quinta C dell’I.T.C. “De Amicis” in visita esplorativa al mondo carcerario. Nel loro itinerario conoscitivo hanno incontrato le varie figure che quotidianamente portano la loro presenza in carcere. Hanno incontrato anche una rappresentanza di noi detenuti. Eravamo quattro, tre detenuti del maschile ed una detenuta. A ognuno di noi, Don Damiano, che ha pilotato questo incontro ha affidato un argomento da esporre agli studenti, affinché alcune pro-blematiche della vita carceraria fossero recepite anche dalle parole di chi sta vivendo al presente il carcere ed i suoi molti contrastanti significati. Questa, che senz’ombra di dubbio nasce come esperienza didattica per gli studenti, è stata positiva anche per noi che vi abbiamo partecipato. Sarebbe stato veramente bellissimo se tutti noi detenuti della sezione maschile e della sezione femminile avessimo potuto essere presenti. Così, per molte ragioni non è potuto essere. Io che c’ero ho pensato di raccogliere nelle pagine del nostro giornale quanto è avvenuto. Ho raccolto quello di cui noi abbiamo parlato e gli argomenti del dialogo che abbiamo avuto con gli studenti. Ho riassunto i discorsi che hanno presentato i miei compagni e ho riportato quello che ho tenuto io. Anche gli studenti ci hanno rivolto delle domande, la loro curiosità, ho notato, si è centrata su alcuni stereotipi che configurano all’esterno del carcere il detenuto e la vita che esso vive. Le loro curiosità espresse in domanda: la stanza dell’affettività, cosa ne pensiamo noi detenuti e detenute; come viviamo un colloquio ed i controlli e le perquisizioni, quali sono i pensieri che guidano la nostra giornata e come cerchiamo di occupare il nostro tempo? Sono chiari ed evidenti i riferimenti a stereotipi che si formano sui molti luoghi comuni che circolano sul detenuto e sul carcere. Gli studenti sono rimasti sorpresi della normalità delle nostre risposte che molto si discostavano dalle loro convinzioni preconcette. La nota positiva del loro viaggio nel carcere è anche questo: conoscere mediante il dialogo diretto i confini di una realtà, troppo spesso muta ed isolata. Non riferisco il contenuto delle risposte che ognuno di noi quattro ha dato alle domande degli studenti, in quanto sono solo considerazioni a risposte personali a cui ogni detenuto può dare la sua risposta, ma mai trascendendo il limite della valutazione individuale. Finora sono rinchiuse qui solo le nostre persone e le nostre aspirazioni, vogliamo evitarci di saper rinchiusi anche i nostri pensieri, nei margini di un’etichetta che male poi sapremmo sopportare.
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Riflessione
La strada è lunga e il percorso sempre più tortuoso, ad ogni caduta di più, e sono indeciso se continuare. Solo il bene delle persone care, alla fine, avrà il sopravvento su tutte le mie difficoltà, paure ed incertezze.
Sono stanco, questo è ormai assodato. Mi è arrivato un “permesso” eppure sono ancora incredulo. Sono felice: oggi, domani e poi cinque giorni liberi per poter riabbracciare, riassaporare, rientrare appena, ricucire, superare gli imbarazzi, riannusare il mio cane, i miei gatti, casa mia, la mia erba, l’odore indimenticabile e così profondamente memorizzato del mio Po. Per non parlare di mia figlia, mia moglie, dei genitori e di tutto l’universo di sentimenti ed emozioni che ruotano nella mia testa, tutti i giorni di questa pena che quotidianamente mi confonde e m’impedisce la vita. Io non sono un cattolico praticante; ho una mia spiritualità, anche forte, forse anche troppo, ma questo avvenimento mi sembra un miracolo capitato nel momento più opportuno, perché proprio non ce la facevo più. Mi mantenevo in vita, mi aggrappavo razionalmente alla speranza, mi stava mancando l’ossigeno, come se la vita mi scivolasse via, come se l’istituzione, tutta, nella sua così complicata organizzazione si stesse dimenticando o prendendo gioco di me. Sento il bisogno di buttare fuori, miliardi rabbie, a mo’ di universo, per i miei sbagli passati ed anni buttati. Ma in questi due ultimi anni ho avuto anche speranze, consapevolezze mai sentite prima, ho creduto un attimo di tornare padre, marito, parte della società sperando che il mio Sert mi venisse incontro con un’alternativa territoriale che mi permettesse di dimostrare a me e a gli altri che non ero più lo stesso tossico di sempre. Ma mi hanno fatto notare che la mia “storia” mi smentisce e solo la comunità avrebbe potuto salvarmi. M’arrabbio, rifiuto, divento “definitivo” quasi subito e mi riportano in carcere. Ma il mio presente è la risultante della mia storia che accetto ma che mi sta anche tanto, troppo stretta. Mi ripeto, ma io non sono più quello di due anni fa, né mia figlia è la stessa e neppure mia moglie. Nessuno di noi ne poteva più. E allora penso a questo miracolo di permesso, così cercato ed inaspettatamente arrivato. Voglio ringraziare tutti quelli che si sono adoperati affinché tutto questo si potesse avverare. La vivo come una “sana iniezione” salva vita, perché ero veramente al limite, in riserva, in un arido deserto, l’energia mi stava abbandonando, i colloqui troppo stretti e la routine un ossessivo, martellante e snervante mettermi alla prova. Non dormivo neanche più, le notti, un inseguirsi continuo di sogni che mi porta al risveglio più rotto e spaccato della sera, che arriva spesso come una liberazione nella quale mi tuffo stregato. Per tutto questo, per il “tutto” che non riuscirò mai ad esprimere, ringrazio chi ha voluto credermi, darmi una possibilità, mettermi alla prova, aprirmi un attimo la gabbia, la porta che da al mondo, al mio mondo, quello di tutti quelli che mi vogliono bene e che da troppo tempo hanno bisogno di me ed io di loro.
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Anche il colpevole diventa vittima
La irresponsabilità civile da luogo alla disonestà civile. Questo è il terreno fertile in cui nasce e prospera il crimine. La società, lo stato, per la salvaguardia del bene collettivo si arrogano il diritto di reprimere il crimine e di perseguire e di punire con la legge coloro che si sono resi rei. La legge è uno strumento sociale che dirime ogni controversia sui diritti dell’individuo; impone dei doveri, salvaguardia i diritti di ognuno. Il tempo in cui la legge esercita la sua autorità è detto esercizio dell’azione penale. L’azione penale ha origine con l’incriminazione derivante dalla notizia di reato individuato dal Pubblico Ministero. In questo periodo il soggetto resosi reo, assume la qualità di imputato che conserverà finché la sentenza di condanna o proscioglimento non sarà divenuta irrevocabile. Nell’arco temporale che decorre dalla contestazione della notizia di reato alla dichiarazione di irrevocabilità dovrebbe esserci la presunzione di innocenza. Da ciò non può che conseguire che la carcerazione preventiva (custodia cautelare in luogo di detenzione) sia l’eccezione voluta a salvaguardia del bene giuridico, sociale, collettivo, ma non la norma. Purtroppo oggi è divenuto eccezione il saper garantire il bene sociale senza ricorrere all’uso indiscriminato della carcerazione preventivamente all’irrevocabilità della sentenza di condanna. Tutto ciò viene giustificato con l’esigenza di salvaguardia degli interessi della collettività; ma uno Stato che per salvaguardare l’interesse collettivo viene meno ad alcuni dei suoi principi costituzionalmente riconosciuti, può continuare ad arrogare a se il diritto della pretesa punitiva nei confronti dell’individuo? Diversi e specifici sono gli indirizzi di cautela che potrebbero giovare a tale uso! La consuetudine di un’unica scelta, la custodia cautelare in luogo di detenzione, sta facendo si che sia persa la conoscenza degli altri mezzi indicati dalla legge, i quali anch’essi dovrebbero concorrere a garantire la salvaguardia del bene collettivo.
La soppressione o la mancata concessione di un solo dei diritti costituzionalmente da garantire ad ogni individuo, anche se resosi reo o presunto tale, mal si concilia con l’esercizio della Giustizia, più si avvicina per contenuto alla repressione. Chi viene represso, subisce un trattamento ingiusto; il presunto reo anche se veramente reo, a questo punto può lamentare l’ingiustizia subita.
Il colpevole diviene vittima dello Stato che esercita il suo potere di Giustizia non tralasciando di commettere ingiustizia ed il colpevole, per conseguenza, diviene a sua volta vittima.
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Il fenomeno droga: una realtà drammatica
La droga è una delle punte più evidenti di icebergs che si chiamano dipendenze da alcool, sesso, denaro, potere, etc., il tutto per sopravvivere o far finta di vivere.
Questo frequente riscontro sulla diffusione del fenomeno ha suscitato negli ultimi anni una notevole ansietà nelle famiglie, nelle istituzioni, nelle scuole: nel contempo, si è tuttavia creata una maggiore sensibilità al problema, che ha intensificato il dibattito, nel tentativo di individuare delle soluzioni. E’ stata sviluppata la prevenzione, attraverso una più corretta informazione, sono aumentate le comunità terapeutiche, sono state emanate normative che nella sostanza, alleviano la posizione penale del consumatore e colpiscono più severamente lo spacciatore. Strutture pubbliche distribuiscono il metadone, palliativo contestato dagli stessi tossicodipendenti, in quanto non può rappresentare una soluzione Nei concreti comportamenti delle istituzioni ravvisiamo, dunque comprensibili imbarazzi e contraddizioni, nella ricerca di soluzioni ad un problema che non può essere superato con meri interventi normativi (benché necessari), che non siano accompagnati dalla cooperazione delle forze sociali, dei nuclei familiari, d’informazione e degli operatori culturali. Il problema della droga affonda, infatti, le sue radici in una situazione di disorientamento morale e di disagio sociale che caratterizza la civiltà dei nostri giorni e che costituisce motivo di turbamento, soprattutto fra i giovani. L’insoddisfazione, le incognite dell’avvenire, la disoccupazione, le carenze affettive (crisi della famiglia), l’assenza dei valori assoluti: credo siano questi i presupposti della scelta di oblio e di evasione reale che si rendono possibili attraverso la sostanza stupefacente.
Di fronte a fattori causali così complessi, non sono sufficienti le discipline e gli interventi realizzati dalle istituzioni competenti: questi debbono essere accompagnati da una presa di coscienza da parte della nostra società, da un recupero di equilibri morali e culturali che possono creare il vuoto attorno al commercio di droga, che è diffusione di annullamento intellettuale, disperazione, violenza e, frequentemente di morte.
Si è cercato, in diverse occasioni, anche da parte di ambienti politici, di differenziare il trattamento e la considerazione, anche sotto il profilo penale, dello spaccio di sostanze cosiddette leggere, da quello di droghe pesanti.
A questo proposito, se, obiettivamente, gli effetti immediati e il grado di pericolosità si collocano su livelli diversi, occorre tuttavia tener conto che larga parte delle testimonianze relative al consumo della droga identificano nello spinello l’anticamera dell’eroina. La lotta, quindi, deve essere combattuta su ambedue i fronti.
L’avversario principale è indi-viduabile nella rete malavitosa dedita allo spaccio, che è divenuto, ai nostri giorni, forse il più fruttifero business delle grandi organizzazioni criminali. Viene smerciato, infatti, un bene di consumo che non permette all’utente pause o ripensamenti: prevale la dipendenza psicofisica che incrementa enormemente il potere dello spacciatore sul “cliente”.
In relazione allo spaccio, uno degli aspetti più sconcertanti è la vastità della sua diffusione, che, dalle grandi organizzazioni della malavita (tipo mafia e camorra) si estende ormai a gruppi ed individui che, pur non appartenendo stabilmente al mondo del crimine e svolgendo talora normali e rispettabili attività professionali, arrotondano tuttavia le proprie entrate con il commercio di droga, attratti dalle prospettive di profitto che esso comporta.
Questa situazione rende molto fitta la rete di spaccio, più semplice la ricerca da parte del consumatore, più complesso il lavoro degli inquirenti. E la droga, come un normale bene di consumo, circola agevolmente, mietendo però vittime e drammi, talora irrimediabili.
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Riflessione sportiva
Io mi ritengo una sportiva, ho sempre creduto fortemente sulle mie capacità fisiche. In passato volevo e desideravo con tutta me stessa, diventare qualcuno e farmi valere attraverso lo sport, e precisamente ho puntato su un’attività sportiva a cui tengo molto “la pallavolo”. Ho fatto ben sette anni impegnandomi su questo e la mia esistenza era improntata esclusivamente sullo sport ed aveva un senso; poi, piano piano andava regredendo, avendo incontrato sulla mia strada la cosiddetta polvere magica.
All’inizio dicevo e pensavo che non mi avrebbe portato ad una autodistruzione, ed invece sta influendo attualmente tutta la mia vita. Credo che se l’individuo conta e si basa sull’immancabile bisogno dello sforzo fisico, sarebbe un buon modo di scaricare tensioni accumulate durante il quotidiano, logicamente è un modo di mantenersi in forma ed in attivo, se ci pensate è un mezzo di comunicazione eccezionale, è un modo di divertirsi in modo sano e costruttivo, senza stare solo ed esclusivamente a rimuginare pensieri e problemi inculcati dalla nostra posizione giuridica.
Allo stesso tempo ci si sente utili, si comincia ad avere fiducia in se stessi anche se a piccole dosi. La nostra mentalità carceraria ci porta a volte ad una chiusura totale. Dobbiamo cercare di combatterla con lo sforzo fisico che influisce anche psicologicamente e ci rende almeno in parte soddisfatti, in quelle poche ore d’aria a disposizione sfruttandole nel miglior modo possibile, lasciando le ripicche, le invidie da parte. A volte mi sembra che ci comportiamo come delle bambine, mi sembra di essere tornata ai tempi dell’asilo. Personalmente sento il bisogno, essendo sempre chiusa, di esprimermi all’aperto giocando e cercando di divertirmi anche con poco, in completa armonia, ma all’interno del carcere è difficile andare d’accordo con tutte ed instaurare un rapporto di amicizia. Lo escludo a priori perchè ho trovato tanta ipocrisia e andando avanti sento in me che sta nascendo un senso di mene-freghismo, anche se di indole sono altruista. Dentro di noi c’è dell’infantilismo ed a volte faccio la pagliaccia anche se ho 30 anni, ma è un modo anche questo per non pensare troppo in che brutale contesto ci troviamo. Posso aggiungere che avendo avuto un’infanzia difficile ed il dover crescere troppo in fretta, assumendomi responsabilità che non erano alla mia portata, mi ha fatta evadere trovando nelle sostanze un senso di ribellione autentica.
Al momento sto riflettendo su quello che ho vissuto nell’arco dei miei anni, perchè il carcere ti da modo di pensare a questo, ma se vissuto in maniera non costruttiva per se stessi, cioè ci si lascia andare in un’apatia completa, come un annullarsi automaticamente. Non dobbiamo permetterlo e dobbiamo lottare con tutte le nostre forze. Cerchiamo di sentirci vivi anche tra queste quattro fredde mura.
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Voli di dentro
(poesie e quant’altro)
LA VERA CONDANNA
Guardo con questi occhi stanchi
in un mondo che crudelmente mi ha tradito,
come un pugile mi ha lavorato
i fianchi senza avermi capito.
Ascoltando le mie orecchie, incredule, la volgarità
la presunzione di chi…
parla bene razzolando male
ed allora mi chiedo a che serve,
a chi per un periodo forse sbagliato
mi nega un futuro, pur avendo pagato.
Questa malattia è come la lebbra
non merito nessuna considerazione.
Questo conto con la mia vita mi dice che non è mai finita,
vai tranquillo per la tua strada, ma non finisce mai.
È un’autostrada, divieto di sosta in tutte le parti.
Con le ruote a terra non fermarti.
Si chiudono ancora le mie labbra.
DA FUORI
Visi scavati,
da scappelli d’acciaio,
che riflettono,
su sbarre fredde,
quasi intoccabili,
la luce,
il giorno,
un quadro azzurro alla parete,
rinchiuso.
Il giorno
la luce
che cambia
e gioca coi riflessi
da fuori.
Tania
SOGNO
Il mio sogno
dedico a te tutta la mia vita
sebbene sia stata tanto ferita
Penso, ricordo e piango
in un mondo che è come un fango.
Sogno una tranquillità
In questa stupida città,
non so quando ci sarà
un vera serenità,
ma se veramente arriverà
una grande festa si farà.
Mirko B.
PARVENZA
Come argilla al sole
come dopo una piena
lunga e larga distesa di drappi
è questa arida attesa
di lacerati sentimenti
nucleo a stenti mantenuto
con frammenti di parole
con clessidra veloce,
filtrate origliate, rubate intimità.
ogni tanto un umano
ti concede un abbraccio
Si accende una luce, debole
subito lontana
illusione probabile di una vita
ancora lunga a venire.
Antonio M.
IL COLORE DEGLI OCCHI
Quei tuoi occhi verdi
mi fanno sballare,
il tuo fisico perfetto
e la tua voce
mi fanno tremare
quando ti vedo
vorrei poterti baciare
Tutto di te
mi ha fatto innamorare
ed ora urlo al vento
che sei davvero speciale!
Lleshi P.
LA NOTTE
La notte mi addormento dopo
averti pensato tutto il giorno
al mattino mi sveglio dopo
averti sognato tutta la notte.
Ogni volta che guardo
intorno a me qualcosa mi ricorda di te
ma deve essere qualcosa di stupendo che sappia capirmi,
come fai tu amore mio.
Lleshi P.
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La pena di morte negli Stati Uniti:
condanne eseguite
dal 1608 ad oggi: oltre 19.000
dal 1930 al 1976: 3.829
nel 1976: 0
nel 1977: 1
nel 1978: 0
nel 1979: 2
nel 1980: 0
nel 1981: 1
nel 1982: 2
nel 1983: 5
nel 1984: 21
nel 1985: 18
nel 1986: 25
nel 1987: 11
nel 1988: 16
nel 1989: 23
nel 1990: 14
nel 1991: 14
nel 1992: 31
nel 1993: 38
nel 1994: 31
nel 1995: 56
nel 1996: 45
nel 1997: 74
nel 1998: 68
nel 1999: 98
nel 2000: 17 (al 24 febbraio)
Totale dal 1976 a oggi: 615 (fonte: Amnesty International, 2000).
Dati aggiornati al 24 febbraio 2000.
Negli USA la pena capitale è prevista in 39 Stati.
16 esecuzioni hanno riguardato minorenni all’epoca del reato e 34 persone portatrici di ritardo mentale.
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