«Prospettiva Esse – 2001 n. 3»
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Parole
di Livio Ferrari (direttore del Centro Francescano di Ascolto di Rovigo)
Siamo in pieno autunno e nel carcere le stagioni si sentono più che in altri luoghi. In questo periodo dell’anno il grigio e il freddo vengono ad intristire un ambiente che già ci mette di suo! E’ soprattutto il senso di “altro”, di abbandono che raffredda questi muri vecchi e grossi dove l’umanità che vi è reclusa si sente spesso anche dimenticata.
Non sono passati che tre anni da quando i giornali gridavano all’emergenza carceri perché il sovraffollamento era diventato un problema, e allora il numero delle persone ristrette raggiungeva le 49.000 presenze. C’è poi stato l’anno del Giubileo, durante il quale molti hanno sollevato il problema di una capienza sempre meno sopportabile - si era intorno alle 53.000 unità - e il Papa, per l’occasione, chiese indistintamente a tutti gli Stati di dare segnali di clemenza a persone che avevano la loro colpa ma ai quali bisognava indicare esempi di speranza.
Siamo quasi alla fine del duemilauno e il problema carceri abbiamo scoperto che non c’è più! Almeno? Nessuno più ne parla, ora i cattivi sono i magistrati e probabilmente anche molti detenuti saranno dalla parte dell’attuale Governo. Le istanze più drammatiche, a cui è stata data priorità di risposta, sono state quelle di riportare in Italia i denari riciclati, rubati e nascosti all’estero come fosse un’operazione di alta economia. Prima, però, ha trovato ancora più urgenza la necessità di mettere dei paletti ben grossi alla possibilità di fare rogatorie per chi “pulisce” il denaro in altre nazioni. Che se da una parte è comprensibile pensando a coloro che, in questo momento sono seduti su scranni alti e ben pagati con le tasse dei contribuenti, si preoccupano di non ritrovarsi nelle patrie galere, dall’altra è diventato uno spettacolo a dir poco indecoroso soprattutto per chi in carcere c’è ed ha avuto una condanna che rapportata a quelle subite da attuali parlamentari - poi magari “riviste” nei diversi gradi del processo - fanno arrossire: ma di vergogna!
Sì, perché è inverosimile assistere a questo spettacolo, a questo teatrino della politica che calpesta la dignità e i problemi umani. E se anche le carceri sono stracolme e il numero dei rinchiusi ha superato quota 58.000 ed entro Natale potrebbe girare la boa delle sessantamila presenze, a nessuno sembra importare, se non in termini di ulteriore repressione.
L’attenzione dell’opinione pubblica e dei politici al soldo del consenso elettorale è ora tutta concentrata sulla guerra. E il termine guerra si associa a business economico, perché le leadership si ottengono in funzione dell’economia e il nostro presidente del consiglio non poteva di certo guardare la spartizione della torta senza la tentazione di sedercisi a tavola. Ecco allora, quasi temeraria, la richiesta di poter entrare in guerra anche da parte dell’Italia, che ai più sembrerà un atto di forza e valore di nazione che vuole contare nel panorama mondiale, le cosiddette superpotenze.
Non mi meraviglierei che ora - dopo il tentativo di rinverdire le tentazioni abissine - la successiva mossa fosse quella di dire alla popolazione detenuta: se volete potete scegliere: o la galera o difendere l’onore della vostra patria andando a combattere in terra araba. Ma forse pretendo troppa fantasia da chi è più abituato a far soprattutto di conto.
Ma ritornando ai nostri problemi, che restano alquanto circoscritti, forse per l’assonanza ai luoghi reclusi di cui sono appannaggio, assistiamo perciò a come l’invivibilità delle carceri venga messa in ombra da temi che trovano maggiore attenzione sociale. Non fanno più notizia, infatti, i suicidi o l’aumento degli atti di autolesionismo, parlando di chi è recluso e nemmeno i problemi, anche questi sempre più drammatici, degli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni massacranti e a pagare molte mancanze in un lavoro che, non dimentichiamolo, è sempre rischioso.
In ogni caso, tutto ciò di cui ho detto in queste righe, restano solo parole. Parole che non diventano indignazione, come dovrebbero, ma si attorcigliano nella rassegnazione. Parole che non assumono i toni della denuncia e della proposizione ma si annebbiano nell’oblio della distanza di uomini e donne con altri uomini e donne, di territori separati tra loro, di un’umanità intenta alle proprie fatiche senza la dovuta attenzione a chi passa o vive a fianco.
Parole che si rivestono di tonalità e colori a seconda della stagione e, tra poco, saranno ricoperte di panettoni e alberi di Natale, di parole - sempre quelle - suadenti e di speranza, che ci faranno sentire persino più buoni.
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Razzismo
di Patrick Ozoemena
Per quello che so, Dio non può sbagliare e non ha sbagliato a creare gente diversa nell’apparenza, ma uguale nella sostanza. Ha creato l’uomo e la donna, ha creato il bianco e il nero. Purtroppo anziché amarci come figli dello stesso Dio, ci ammazziamo a vicenda per i nostri colori diversi come se fosse colpa se uno è di un colore diverso da un’altro.
Vai negli stadi di calcio per divertirti e ti rendi conto dell’ignoranza di alcune persone, ancora oggi 2001 anni dopo la morte di Cristo. Se un giocatore di colore tocca il pallone, senti un boato razziale tremendo. Che vergogna! Una volta, addirittura, un allenatore di una squadra (Eugenio Fascetti ndr) riferendosi ad un giocatore di colore, Diwara del Torino, disse: “meglio rimandare questi giocatori nei loro paesi di origine perché potrebbero anche essere infetti”. Che dire del presidente del Verona calcio il signor Pastorello quando rifiutò l’acquisto di un giocatore di colore del Parma, Mboma, perché secondo lui i tifosi non glielo avrebbero perdonato.
Il campo dell’Olimpico di Roma fu squalificato per una giornata in seguito ad uno striscione della vergogna esposto dai tifosi laziali durante una partita di calcio tra Roma e Lazio. La stessa sorta toccò al campo del Piacenza. Il trofeo della simpatia e buon senso è da consegnare comunque ai giocatori del Treviso calcio i quali, come segno di solidarietà nei confronti di un loro compagno di squadra (un giocatore Nigeriano ndr), si sono tinti il viso di colore nero prima di scendere in campo, nonostante il fatto che il primo cittadino, il sindaco Gentilini, sia un vero razzista.
Anche dopo la dimostrazione di sensibilità dei giocatori del Treviso, nonostante tutto il primo cittadino della marca ha descritto ancora una volta il nero come il colore della vergogna.
Se nel 2001 ci sono dei sindaci che la pensano così, non è difficile immaginare cosa i relativi cittadini e in modo particolare i bambini possano imparare.
Comunque, pur davanti a tutte queste manifestazioni di intolleranza razziale la speranza per una società rispettosa di tutti è ancora viva e resta il fatto, infine, che Dio non ha sbagliato.
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Giustizia e pregiudizi
di M. F. Fabris
Colpevole! Colpevole!! Colpevole!!!
Ma tu ne sei proprio sicuro? Ne sei così certo che metteresti la mano sul fuoco? Sei proprio convinto che tutti quelli che tu accusi e condanni siano colpevoli? Ma ti è mai balenato per la mente che questi che tu chiami “rei” sono forse persone innocenti o forse solo in parte colpevoli?
Fermati a pensare e dimmi come fai tu a credere di conoscere la “verità” e, inoltre, hai mai immaginato di trovarti nelle stesse circostanze sfavorevoli di quello che tu condanni? Non rispondermi subito, pensa ancora un po’ e dimmi sinceramente, come ti comporteresti nella stessa situazione?
Non è che forse la tua reazione verso un destino ingiusto e una vita ingrata sarebbe stata più violenta di quella di quel “reo” che tu con tanta leggerezza condanni? E, una volta condannato, cosa ne fai poi di lui? Gli dai la possibilità di capire dove ha sbagliato, perché è stato punito, e come può poi ritornare in sella per riprendere il cammino della sua vita interrotta?
A me non sembra che sia proprio così!
Ciò che vedo è questo: una cella squallida, piena di altri disperati che nulla hanno in comune con lui se non la disgrazia di dividere la stessa terribile esperienza.
In quelle condizioni cosa può lui capire, come può lui migliorare e, soprattutto, come può lui, alla fine della sua condanna, riprendere un nuovo cammino?
In un mondo difficile, in una società spietata dove tutti i cosiddetti “buoni e bravi” si sentono il diritto di scagliare pietre, come può un “ex-reo” ritrovare la via e riprendere a vivere una vita normale e piena?
E’ più che logico che lui sbagli di nuovo e che, dopo ogni nuova punizione, lui diventi più “duro”, perché via via cresce in lui il rancore, poi l’odio e, infine, il desiderio di vendetta verso tutto e tutti. E’ una “escalation” senza speranza di ritorno!.
Alla fine, il “grande giudice giusto”, con l’aiuto di tutti quelli che ruotano intorno a “lui” o a “lei”, avrà creato il suo mostro.
E’ questa ciò che noi chiamiamo giustizia?
Tutti la reclamiamo, tutti vogliamo essere protetti da quelli che consideriamo pericolosi, tutti pretendiamo che chi ci ha fatto del male paghi per il dolore che ci ha inflitto, ma tutti dobbiamo dire “basta alla fabbrica dei mostri” o, se siamo fortunati, alla crescente schiera dei “disperati” che continuano ad entrare ed uscire dalle galere dei cosiddetti Paesi civili .
Giustizia! Giustizia!! Giustizia!!!
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Articolo 21
di Ferdinando Cantini
Il lavoro quale mezzo e strumento per un futuro reinserimento e il ritrovamento di quella indispensabile dignità per camminare di nuovo sereni sulle strade della vita.
Da anni, periodicamente, nel nostro giornalino raccontiamo gli avvenimenti che scandiscono la nostra quotidianità di persone ristrette, fatti che in qualche misura migliorano il nostro livello di vita e le nostre aspirazioni di essere partecipi a questo processo evolutivo. Alcune volte ci siamo permessi anche di indicare soluzioni possibili. In quest’ultimo periodo, all’interno della struttura carceraria si stanno effettuando diversi lavori di manutenzione. In alcuni casi sono state apportate anche delle modifiche strutturali, per rendere più funzionale l’edificio agli scopi indicati, in applicazione del regolamento penitenziario. Così è avvenuto che la cella occupata dai detenuti in regime di art. 21, cioè detenuti che lavorano esternamente durante il giorno, ha trovato una diversa e migliore collocazione in altra zona dell’istituto penitenziario. Questa nuova soluzione, voluta dalla direzione della casa circondariale, è sicuramente più consona in senso logistico. Permette infatti un movimento di accesso indipendente per coloro che svolgono l’attività lavorativa extramuraria e contemporaneamente consente la separazione, voluta dal regolamento, tra questi e gli altri reclusi. Per di più, essendo il nuovo spazio di ampiezza maggiore al precedente potrà anche consentire a un numero superiore di detenuti di accedere all’esperienza lavorativa in questione.
Noi reclusi, non possiamo che rallegrarci, dall’esito delle modifiche ultimamente apportate e sperare che l’intuito e la volontà che le ha rese possibili non si limitino a questo, ma che si proceda sulla strada intrapresa in questa via di innovazioni migliorative.
L’aver voluto ed individuato, all’interno della struttura carceraria, uno spazio adibito esclusivamente allo svolgimento detentivo del regime ex art. 21 è significativo dell’importanza trattamentale che viene dato a questo istituto, perciò sarebbe auspicabile ampliare questa possibilità ad altri ristretti con l’acquisizione di un numero maggiore di posti per arrivare, se possibile, ad una sezione vera e propria per la semilibertà.
Inoltre, i regolamenti che disciplinano il regime di lavoro esterno e la semilibertà sono molto simili e possono trovare soluzione logistica nel medesimo luogo. La casa circondariale di Rovigo è tuttora priva di una sezione per detenuti in regime di semilibertà, e questa mancanza non è un aspetto positivo nel percorso di reinserimento possibile per ognuno di noi.
Il progresso evolutivo pertanto non si deve arrestare e, in considerazione della ventata di migliorie strutturali portate dall’attuale direzione, aspettiamo fiduciosi che lo spazio “apertosi” con il lavoro esterno possa diventare qualcosa di più, su quella strada che deve portare per forza fuori e coltivare ogni possibile speranza.
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Stato di polizia
di Giulia Fedrigo
Le conquiste sociali, ottenute con il sacrifico di molti, non possono essere d’un colpo spazzate via in nome della globalizzazione che, in termini poveri significa: maggiore ricchezza per i ricchi e sempre più povertà per i poveri.
I fatti accaduti in luglio a Genova, seppur archiviati nella memoria, devono obbligatoriamente farci pensare. Gli slogans lanciati nell’occasione non sono semplicemente da sottovalutare. A chi è in carcere, poi, il tutto potrebbe apparire come una cosa lontana visto che è accaduto fuori di queste quattro mura che ci circondano, eppure ci tocca molto da vicino perché se fuori i manifestanti pacifici sono considerati alla stregua dei delinquenti se non peggio, noi cosa siamo? Una provocazione fatta anche da infiltrati per poter delegittimare migliaia di persone che obiettavano, dimostravano un loro dissenso. Libertà di parola e di espressione, perché no? Perché quell’accanimento violento proprio da parte di chi aveva solo e unicamente il compito di mantenere l’ordine? C’è stato un morto, per altro evitabile, eppure c’è stato! Ma l’ordine organizzativo non diceva che le forze di polizia dovevano essere dotati solo di proiettili di gomma e non di pallottole vere? Tutto ciò trova collegamento ad una logica che si vuole far passare e che ridisegna gli atteggiamenti sociali. Come espellere gli extracomunitari che sono in carcere, ma dove se le loro ambasciate nemmeno ne sono a conoscenza? Rendere reato l’emigrazione clandestina e, non ultima, nell’aria c’è l’idea di far venire nelle nostre carceri gli italiani detenuti all’estero! Sovraffollamento di nuovo garantito, come se non bastasse l’attuale situazione. Ho messo insieme queste due cose perché il fine mi sembra lo stesso: repressione! Molto pericoloso. Dove sta andando lo stato democratico? Dove? La repressione, la dittatura, portano a fare grandi passi da gambero. Ora servirebbero proposte politiche in antitesi che fossero di qualità, ma il panorama politico attuale è desolante e anche dall’altra parte non stiamo meglio. Certo è che almeno avremmo il diritto di esternare la nostra idea, condivisibile o meno, dipende dai punti di vista, ma senza essere presi a manganellate. I vecchi hanno coniato un proverbio “si stava meglio quando si stava peggio”. Forse è vero! Ma noi, per lo meno, cosa possiamo fare per contrastare questo sistema? Non so se vi ricordate gli slogan della campagna politica di primavera. Ce n’era uno che diceva “L’Italia…che ho in mente”! Bene. Avete visto quella apparsa sulle pagine di tutti i giornali in occasione di Genova? Brutale se volete ma, temo, sia vera! L’immagine di Carlo Giuliani a terra privo di vita. Non voglio alimentare polemiche e forse questa immagine compresa di slogan è stato pesante, ma ritengo che nella vita le conquiste sociali, che sembrano oramai acquisite, possono anche essere spazzate via d’un colpo, tutto è possibile. Sta a noi di restare desti e capaci di affermare le nostre idee e i nostri diritti. Sta a noi non farci nebulizzare da stratagemmi politici di alcun genere, per cercare sempre e in ogni caso giustizia.
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Nuove possibilità
di Alberta Secchi (Psicologa presso il Ser.T. dell’Azienda ULSS 18 di Rovigo)
Il rapporto di collaborazione tra la Casa Circondariale ed il Ser.T.di Rovigo è iniziato nel 1993, in base alla legge che assegna ai servizi per le tossicodipen-denze delle ULSS i compiti per la prevenzione, cura e reinserimento sociale dei soggetti alcooldipendenti e tossicodipendenti. Da allora l’attività è andata sviluppandosi gradualmente e il quinquennio successivo, in particolare, ha visto nascere e consolidarsi importanti innovazioni per questo Istituto: dal primo gruppo di auto-aiuto avviato dalla Dottoressa Alberta Secchi (“Gruppo Benessere” o “gruppo del giovedì”) alle attività di educazione alla salute; dall’idea per la nascita di questo stesso giornale alle iniziative di coinvolgimento delle autorità comunali e di raccordo con le cooperative sociali.
La “filosofia” di lavoro in questi anni è stata relativamente sempre:
I risultati sono stati lusinghieri, segno che la logica seguita resta valida. Un grazie va rivolto proprio ai detenuti che, se da un lato avevano ovviamente l’interesse a costruirsi delle opportunità, hanno in realtà dimostrato una grande qualità e, in più molto apprezzata, la passione partecipativa.
Un ringraziamento spetta anche al personale della Casa Circondariale e alla Direzione, che ha visto alternarsi diversi responsabili, con qualche intoppo, ma anche una sostanziale continuità di impegno che ha reso possibile il tutto.
Come nota critica va detto, per onestà, che non sempre si è avuta la costanza di cercare nuove risorse per sostenere i programmi e le attività. In parte per le difficoltà interne della Casa Circondariale che non serve ora rimarcare, in parte per problemi del nostro servizio.
Certamente la disponibilità da parte della Dott.ssa Secchi e del Ser.T. non sono bastate e i problemi di organico hanno finito col bloccare una parte del lavoro che ultimamente si reggeva solo sulla tenace volontà di non mollare. Infatti nel marzo ‘98 le attività del gruppo sono state interrotte e la presenza del Ser.T. nella Casa Circondariale si è limitata al minimo essenziale.
A partire dall’anno 2000 si sono registrati tuttavia importanti cambiamenti: tutto il settore delle tossicodipendenze dell’Azienda ULSS 18 è stato rinnovato, dando vita ad un Dipartimento per le Tossicodipendenze. La nascita del Dipartimento ha portato alla ridefinizione dei bisogni e delle risorse in alcuni settori chiave, tra cui l’attività presso il carcere. E’ stato cosi strutturato un apposito gruppo di lavoro, stabile e un po’ più nutrito, denominato “Unità Funzionale per l’Assistenza ai Tossicodipendenti e Alcooldipendenti Reclusi”, affidato alla responsabilità della Dott.ssa Secchi ed il primo risultato è stato che, finalmente, dal 17 maggio 2000 sono ripresi i gruppi settimanali nella sezione maschile e si è potuto ripensare ad alcuni progetti accantonati.
Nel 2001 in seno all’Unità Funzionale sono stati inoltre integrati gli operatori dell’ex presidio tossicodipendenze interno al carcere, che in passato dipendevano dal Ministero della Giustizia e ora in tutta Italia, in base ad una nuova legge, passano interamente sotto la gestione delle Aziende Sanitarie Locali (ASL) o “Aziende ULSS” nel Veneto. A tal proposito si è costituito un tavolo di confronto, con la partecipazione del direttore della Casa Circondariale Dott. De Mari, della Dott.ssa Secchi in qualità di responsabile dell’Unità Funzionale, della Dott.ssa Cuccurù direttore sociale dell’Azienda ULSS 18 e del Dott. Celeghin responsabile del Dipartimento per le Dipendenze. Ne è scaturito un protocollo collaborativo per assimilare i cambiamenti introdotti e consentire una più proficua integrazione tra èquipe trattamentale interna e Unità Funzionale, a vantaggio in primo luogo dei detenuti. Gli accordi non sono ancora stati assimilati nei dettagli, ma nel frattempo alcune altre attività si sono aggiunte.
In data 16 giugno 2001 è stato avviato un gruppo sperimentale di auto-aiuto anche nella sezione femminile, un progetto sperimentale importante in un contesto con meno presenze, un più rapido avvicendamento delle persone e quindi esigenze specifiche. E’, poi, in preparazione la Carta del Servizio della Unità Funzionale, un opuscolo informativo per presentare le attività, gli operatori, spiegare come contattarli.
Recentemente sono stati avviati i primi incontri informativi e di sensibilizzazione, per ora riservati ai partecipanti ai gruppi di auto-aiuto, sui benefici penitenziari, sulle misure alternative alla detenzione, sull’alcol e sulle strategie di protezione della salute. Tali incontri rappresentano l’inizio di un possibile programma più articolato ipotizzato per il futuro ed aperto anche ad altri detenuti. Infine sono previste delle iniziative anche verso gli agenti di polizia penitenziaria.
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Carenza
di Giulia Fedrigo
Le emergenze e le carenze del pianeta carcere sono sempre più drammatiche e davanti agli occhi di tutti ma, dopo i clamori del giubileo, tutto tace. Gli agenti della polizia penitenziaria sono sotto organico, le celle scoppiano e sono sovraffollate, insieme ad altri tragici problemi, ma chi deve dare delle risposte che fa?
Carenza… carenza… carenza!
Carenza di un amico al primo ingresso. Beh, un’emergenza comune. Non sempre valutata nel modo corretto ma diciamo che si può ovviare.
Carenza di educatori, assistenti sociali, beh, dividersi tra il maschile e il femminile per una sola persona non è facile e i programmi continuativi si fanno un po’ desiderare e ci si chiede come possano procedere. Ma tutto sommato non è ancora vista come un’emergenza. Quella che invece è un’emergenza grossa, almeno per quanto riguarda la sezione femminile è la carenza (negli ultimi tempi quasi costante) degli agenti di polizia penitenziaria. Cosa accade se non ci sono agenti addetti alla sorveglianza? Beh, un giorno salta l’aria. Un’altra volta l’aria si fa ma viene interrotta per un intervento che richiede la presenza dell’agente che al momento espletava il suo compito di vigilanza, con particolare occhio al nostro comportamento, durante l’aria. Salta la possibilità della doccia, salta lo spazio della socialità. E noi ristretti, permettetemi, a parte due-tre casi di “effervescenti”, ci tappiamo bocca, naso e orecchie e facciamo finta di niente. Rimuginando, è ovvio, ognuno dentro di sé il sapore amaro di un’ingiustizia subita. Respingi, inghiotti - oggi, domani, dopodomani - e hai paura di un’eruzione, i vulcani cosiddetti spenti ne sono un esempio. Ci si chiede come andrà a finire, il fuoco covato sotto la cenere è il più imprevedibile e il più pericoloso. Ma al di là di far capire che siamo un gruppo “calmo” ci poniamo una domanda: “se l’Agente di polizia penitenziaria si trova solo e scoppiano contemporaneamente tre emergenze che fa?” C’è da dire, e spezzo una lancia a loro favore, che il tutto - i diritti negati - non sono frutto di loro cattiverie personali. Anzi possiamo affermare che se possono fanno oltre il dovuto, chi più chi meno. Certo è un problema che va risolto e direi in fretta, per una tranquillità maggiore da ambo le parti. Lavorare in un ambiente sereno è più producente che viceversa. Certo non è un problema solo di questo carcere. Ma come si suol dire: per pulire casa degli altri, bisogna prima pulire la propria. Non sappiamo come siano messi al maschile sotto questo profilo ma, almeno per garantire da noi il minimo di presenza, perché non far venire un agente da di là, che non occorre abbia rapporti con la sezione, sarebbe sufficiente stesse alla guardiola, così l’unica agente femminile potrebbe curare la sezione, capita anche in altri istituti.
Ci si chiede se tutte le problematiche esposte, e altre ce ne sarebbero da evidenziare, facciano parte delle preoccupazioni di chi gestisce questa casa circondariale e come pensano di risolverle. Perché siamo sì detenute, ma prima di tutto persone e, senza tenerlo in secondo piano, resta il grosso problema per la polizia penitenziaria. Perché, nella condivisione forzata degli spazi della sezione, l’evidenza della nostra quotidianità è ben conosciuta dalle agenti e non è facile per loro dire “oggi l’aria non si fa, la socialità non si fa, ecc. ecc.”. I giorni trascorrono e trascorreranno nella convivenza costretta, pertanto diventa sempre più urgente dare delle risposte che aiutino a sopportarla il meno peggio possibile!
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Solitudine
di Alessandro La Bua
Solitudine non è la parola più adatta per quello che intendo esprimere, in quanto evoca ingiuste malinconie o languide tragedie, come una colpevolezza o una punizione. No, non è questo, quello che io intendo per solitudine è sviluppare una capacità, una funzione sensoria di sintesi nei confronti della vita, che è comunque un accadimento corale per ognuno, un imparare ad andare d’accordo con il funzionamento della propria esistenza fino a socializzare le proprie peculiarità più profonde tipo il verme o il tarlo che rode il segreto di tutta una vita e altri eccetera puritani che ci spingono a una falsa mediazione o a un altrettanto falso isolamento dal mondo.
Promuovere sul piano sociale i propri “guasti” significa apprendere e non aver bisogno, entro breve tempo, di nessun meccanico. Perché, diversamente dalle cose meccaniche, il motore della vita va avanti grazie a quel certo “guasto”, e il ripararlo può avere effetti devastanti, per il semplice motivo che si potrebbe arrestare o trasformarsi in un’altra macchina impensabile e spesso più pimpante.
Ammiro enormemente, si capisce, anche coloro che decidono di occultare ciò che considerano “guasto” e ci riescono sino in fondo, dando una perfetta dinamica al loro moto apparente. Però è una strada che, una volta imboccata, è e deve restare senza via di ritorno. Purtroppo per loro, devo dire, considerato che non ne ho conosciuto ancora uno che abbia fatto marcia indietro, anche perché tutti gli altri, se esistono non se ne sa niente. Coloro che cambiano rotta per debolezza o pigrizia sono i più disprezzabili, quelli dalla maschera a metà, dagli scoppi ritardati di verità e sincerità, che in loro non possono essere che un ennesimo camuffamento dell’ipocrisia. Non affermo che un volto sia qualitativamente preferibile a una maschera, dico che è solo più comodo perché più nobile, più plastico, più disinvolto. Un volto è, infine, alla portata di tutti, una maschera no: il primo comporta un confort di una democrazia, la seconda la legge ferrea di una dittatura.
Con il tuo “guasto” ben esibito in faccia puoi sceglierti di volta in volta una strada secondo le tue possibilità; con una maschera devi arrivare sino a Dio. Poi rischi che sia comunque un fallimento se sei riuscito solo a ingannare te stesso. Se non si è sicuri di una neutra grandezza che non lasci traccia, è preferibile optare per l’igiene mentale, che è una grandezza a portata umana.
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Informacarcere
– II convegno nazionale
dei giornali del carcere –
Firenze, come in occasione del primo appuntamento, anche questa volta ospiterà il convegno nazionale dei giornali del carcere, per la precisione il “Secondo Convegno Nazionale Informazione e Carcere: i giornali del carcere e altro” che si terrà il 16 e 17 novembre prossimi nell’Auditorium del Consiglio Regionale della Toscana a Firenze, ed è organizzato dal Coordinamento Informazione e Giornali del Carcere e dalla Regione Toscana in collaborazione con il Ministero della Giustizia.
La struttura del convegno è per ora la seguente, a grandi linee:
venerdì 16 novembre, alla mattina, oltre ai saluti di rito, ci sarà la relazione del Coordinamento Nazionale: situazione attuale e bilancio dei primi due anni (1999-2001), a seguire interventi di: Solidarietà (Poggioreale, Napoli); 33,3 Periodico (O.P.G. di Napoli); La Grande Promessa (Porto Azzurro, Isola d’Elba); Associazione Pantagruel (Firenze); Magazine 2 (S. Vittore, Milano); Ristretti Orizzonti (Due Palazzi, Padova);
nel pomeriggio si terranno i lavori di gruppo che svilupperanno le seguenti tematiche: a) Nuovi giornali: perché e come crearli; b) Dal giornale del carcere come strumento unico ad un intervento più complesso sull’informazione; c) Ricerca nazionale dei giornali su aids e carceree altre inchieste e lavori in comune; d) Le carceri in Europa e nel mondo; e) Quale futuro per il Coordinamento?
Sabato 17 novembre, alla mattina, si terranno le relazioni dei gruppi e il dibattito assembleare. Di seguito le elezioni del nuovo Coordinamento Nazionale. Concluderanno i lavori gli interventi dei rappresentanti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, del Ministero della Giustizia, ecc.
La speranza è che la partecipazione sia nutrita e che questo secondo appuntamento cementi ancora di più le esperienze in corso, considerata la difficoltà, che spesso si è evidenziata, di proseguire in queste iniziative in istituti dove il cambiamento di direzione diventa di ostacolo.
INFORMAZIONI:
Associazione Pantagruel – Via Tavanti, 20 – 50134 – Firenze - Tel. e fax: 055.473070 -
asspantagruel@virgilio.it
Progetto Informacarcere - c/o Centro Cultura Legalità Democratica Regione Toscana - Via G. Modena, 13 – 50121 Firenze - Tel. 055.4384103 – Fax 055.4384100 -
informacarcere@regione.toscana.it
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Bisogni primari
di Antonella De Pecol
Le cose più semplici non sono meno importanti e specialmente nella vita detentiva ogni piccola cosa che manca diventa un ostacolo aggiuntivo per una quotidianità già di per sè difficile.
Credo di interpretare significativamente il pensiero delle persone attualmente detenute presso la Casa Circondariale di Rovigo, evidenziando, in questo scritto, come alcune problematiche siano sicuramente urgenti di risposta in quanto veramente necessarie. Il detenuto una volta ristretto dentro queste strutture si trova ad aver bisogno delle cose primarie come il sapone, il dentifricio, lo shampoo, gli asciugamani, gli assorbenti per le donne, la carta igienica, delle ciabatte per evitare di camminare scalzi e scarpe da ginnastica per scendere nelle ore d’aria e poter, attraverso l’auspicabile attività sportiva, fare un poco di sano e necessario movimento.
Dalle cose di prima necessità a quelle che aiutano nella quotidianità, tutto serve a sopravvivere in questa situazione e anche a prevenire malesseri fisici e psichici. Ma non basta, perché c’è bisogno anche di un’igiene più accurata, soprattutto nel luogo in cui si vive: la cella e il corridoio. Pertanto il bisogno estremo di avere prodotti come disinfettanti per la pulizia dei sanitari e del pavimento. Avere così una pulizia più accurata che diventa prevenzione e igiene al tempo stesso.
Purtroppo il problema è visibilissimo considerato che solo un detenuto su otto può permettersi l’acquisto di alcuni prodotti che necessitano a sue spese. Ed i compagni che convivono con lui come stanno, considerando che la stragrande maggioranza del tempo viene trascorsa in cella?
Tutto questo mette in evidenza come non siano sufficienti le attuali normative perché poi carenti nella pratica, come la mancanza di una assistenza all’interno della struttura stessa, cioè avere una sede all’interno del carcere dove vengano recepiti ad attuati aiuti per la popolazione carcerata.
Non tutti i detenuti hanno un sostegno economico dalla propria famiglia e questo crea più di un problema nella quotidiana obbligata convivenza. Pertanto aiutare le persone che hanno problemi finanziari senza creare loro l’handicap di sentirsi oltre che reclusi anche abbandonati a se stessi.
Il problema più urgente è comunque, ripeto, legato all’igiene, avere cioè una periodica fornitura di prodotti per la pulizia delle celle, sanitari compresi, con annesso rifornimento adeguato di carta igienica, sapone e, non ultimo, il cambio di lenzuola ogni otto giorni e non quindici come è attualmente.
Per noi donne c’è poi anche la questione degli assorbenti intimi, che vengono consegnati una volta al mese, potendone avere in un numero maggiore all’attuale. E la “lista della spesa” non finisce di certo qui, l’importante sarebbe ottenere adeguata attenzione per coloro che effettivamente hanno bisogno, essere tenuti in considerazione.
Perché, nonostante quell’articolo apparso su “Repubblica” in occasione dell’approvazione del nuovo regolamento, questo non è certo un albergo di lusso ma, come ogni luogo di vita, c’è bisogno delle cose più ovvie ma indispensabili. Queste richieste sono fatte da persone che, comunque, cercano di adattarsi. E quello che si chiede non è per dare noia e nemmeno si tratta di cose impossibili e, anche se si è reclusi, siamo sempre persone.
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Le porte del carcere e la speranza
a cura della redazione
Dopo aver provato cosa significa il varcare le porte per far ingresso in questo luogo distaccato dal mondo e dalla comune vita corrente, ogni volta che le si sente riaprire, si percepisce come una interiore aspettativa, un volo di speranza.
Anche il giorno ventuno agosto “le porte” della Casa Circondariale di Rovigo si sono aperte e, attraverso esse, in visita, sono entrati il Sindaco Paolo Avezzù e l’Assessore ai servizi sociali Erminia Lodi. Sono venuti a trovarci , raccogliendo il nostro invito, lanciato dalle pagine di questo giornale. E la richiesta, di cui ci siamo fatti promotori, ha un presupposto annoso ma fondamentale: gettare le basi per il futuro reinserimento, cioè pensare al dopo. Ma perché possa esserci un “dopo”, risolutivo ed efficace al nostro reinserimento nel contesto sociale, bisogna che siano intraprese concrete iniziative volte ad individuare dei progetti veri, e non che tutto sia lasciato al caso o alle circostanze nel momento della nostra dimissione. Riteniamo che il solo riesame dei nostri trascorsi , o il ravvedimento interiore che da esso può crescere, da soli non sono sufficienti ed efficaci. Infatti troppo poche volte sono risolutivi.
E’ da libro cuore, per non dire arduo, che possiamo riuscire a pensare al “dopo” in termini costruttivi e positivi , quando ogni giorno siamo chiamati a mantenere un briciolo di equilibrio tra i mille problemi e tensioni che condiscono la vita detentiva, soprattutto di auto sufficienza economica e il mantenimento dignitoso di un rapporto affettivo con i familiari.
Da questi presupposti di base, abbiamo voluto esporre le nostre richieste che non si focalizzano su un purtroppo irrisolto problema di sostegno economico, ma puntando gli obiettivi prima di tutto sul lavoro in
carcere e fuori, ai corsi di formazione lavorativa, e la concretezza di offerte lavorative con soluzioni abitative al momento della nostra scarcerazione.
Siamo ben consapevoli che il 21 agosto è stata solo una presentazione, ma l’attenzione e la cordialità con cui le nostre istanze sono state discusse, ci lascia sperare che saranno recepite e che nel prossimo si potranno concretizzare soluzioni positive.
Questa è la speranza che “ le porte” della Casa Circondariale, il 21 agosto scorso, hanno lasciato entrare.
La nostra realtà, purtroppo, rimane quella dello scontro quotidiano con il pragmatismo di sentenze e ordinanze che ci incolpano di recidività in comportamenti antefatti alle azioni delittuose, senza esaminare mai la sostanza o la concretezza di ciò che effettivamente ci è stato offerto.
Molte volte ci è stato chiaro il concetto che la via in cui ci trovavamo non era quella giusta, ma forse, in quel momento, era l’unica percorribile, perché le altre o erano troppo affollate oppure erano sbarrate da porte, a noi, chiuse.
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L’osservazione in carcere
di Cristina Iannini (Educatrice presso la Casa Circondariale di Rovigo)
Mi accingo volentieri, vista la richiesta pervenutami da questa redazione, a scrivere su un aspetto alquanto dibattuto, ripetuto, da taluni invocato durante i colloqui che effettuo con i detenuti e le detenute. Un argomento che spesso non viene compreso nel significato più vero o che, addirittura, assume connotati diversi per l’operatore e per il detenuto.
L’articolo 13 dell’Ordinamento penitenziario stabilisce l’obbligo di predisporre l’osservazione scientifica della personalità nei confronti dei condannati, ovvero nei confronti di coloro i quali si trovano in carcere in espiazione di una pena definitiva.
L’essere nella posizione giuridica di “definitivo” è la condizione imprescindibile perché la direzione del carcere possa iniziare l’osservazione.
Chi si occupa dell’osservazione dentro il carcere? Sempre l’ordinamento penitenziario attribuisce questo compito ai seguenti operatori: l’educatore, l’assistente sociale e l’esperto (di solito uno psicologo).
Questo gruppo che solitamente è denominato “équipe di osservazione” si avvale ufficialmente, da quando è stata fatta la riforma del corpo degli agenti di custodia, nel 1990, delle osservazioni degli operatori di polizia penitenziaria che, da allora in poi, sono entrati a pieno titolo nell’osservazione del condannato.
Due parole sul significato della osservazione scientifica della personalità: perché scientifica?
Potrei dire scientifica perché non generica. Ma chiarisco ulteriormente: l’osservazione non costituisce un semplice racconto della storia del detenuto, dei reati commessi e del suo comportamento durante la carcerazione; l’osservazione tende a rilevare le cause alla base del comportamento antigiuridico della persona condannata e ad intervenire, con il programma di trattamento, per rimuovere, se possibile, tali cause.
Altro aspetto rilevante è che l’osservazione è condotta da specialisti, ovvero da operatori che hanno una preparazione scientifica sul comportamento, come gli educatori e gli psicologi o che si interessano di conoscere i contesti familiari, la città, il quartiere, insomma il territorio dove è cresciuta la persona, così come devono fare gli assistenti sociali. In tempi più recenti, (ricordiamoci che la riforma ha superato il quarto di secolo), il modello medico-diagnostico dello studio della personalità del detenuto, sebbene sia il modello tuttora seguito, è stato integrato da altri punti di vista più operativi e agevoli come quello ergonomico (il lavoro al detenuto come terapia oltre che come riscatto) o come quello “riparatorio” in cui si apre attualissimo il dibattito sulla mediazione tra il reo e la propria vittima.
Ma tralascio per un’altra occasione questo aspetto, che mi piacerebbe trattare, e che qui mi porterebbe molto lontano dal tipo di descrizione molto pratica e dettagliata dei passaggi che avvengono durante l’osservazione in carcere, che vi interessa.
Prendiamo come esempio una situazione-tipo, di un detenuto che entra in carcere con una pena definitiva da scontare di anni tre.
L’educatore è generalmente l’operatore che fa il primo colloquio con il soggetto durante il quale, oltre a raccogliere i dati anagrafici, si raccolgono i principali elementi per inquadrare le caratteristiche sia personali che giuridiche del caso, utili per l’educatore per procedere alla segnalazione del caso all’assistente sociale e all’esperto. Pertanto si fa una prima distinzione se il soggetto è tossicodipendente e/o alcooldipendente oppure no.
Nel primo caso il detenuto è preso in carico dagli operatori del Ser.T. di Rovigo. La direzione del Ser.T. riceve una segnalazione scritta dal Direttore del carcere che una persona tossicodipendente è stata arrestata. Questa segnalazione impegna il Ser.T. a prendere in tempi brevi i contatti con il detenuto tossicodipendente.
Da quel primo incontro inizia ufficialmente l’osservazione scientifica della personalità. La chiusura, come stabilisce l’ordinamento penitenziario, è prevista entro nove mesi al massimo dall’apertura.
Dopo il primo contatto con l’educatore, al quale possono seguirne altri su richiesta del detenuto o su iniziativa dell’educatore stesso, generalmente il soggetto viene chiamato dallo psicologo.
In questo istituto operano settimanalmente due psicologhe, ossia con una presenza settimanale di ognuna. Per motivi organizzativi una psicologa segue i detenuti tossicodipendenti e l’altra i detenuti non tossicodipendenti.
So bene che spesso il colloquio con la psicologa è vissuto con un po’ di ansia o con la sensazione di essere sottoposti ad un esame o ad un “trabocchetto” per essere smascherati.
In realtà, e posso dirlo con cognizione di causa perché io stessa sono una psicologa, oggi è divenuta più familiare la presenza della psicologa in carcere e si è potuto constatare, anche i detenuti, ahimè, più vecchi di esperienze detentive lo confermano, che lo psicologo non si pone come colui che deve scoprire chissà quali significati reconditi della nostra mente, o meglio, della nostra psiche. Se da una parte il suo lavoro è utile all’équipe per capire più tecnicamente certi comportamenti e ad inquadrare la personalità del soggetto, dall’altra il suo lavoro è utile al detenuto perché può rappresentare alla psicologa le proprie ansie, le proprie difficoltà e trovare possibilmente una risposta, un consiglio, l’aiuto di un esperto.
Chiarito il ruolo dello psicologo nell’osservazione, vediamo quello dell’assistente sociale che appare più facilmente intuibile da tutti.
L’assistente sociale è un operatore che si occupa di osservazione del detenuto in carcere su richiesta scritta della Direzione, in quanto l’assistente sociale dipende da un’altra Direzione che è quella del Centro di Servizio Sociale per Adulti del Ministero della Giustizia che è a Padova, in attesa che un Ufficio venga aperto anche nella città di Rovigo.
L’assistente sociale, pertanto, chiama a colloquio il detenuto secondo i tempi e criteri che vengono stabiliti dalle date di chiusura dell’osservazione. Infatti l’educatore, che è anche il segretario tecnico del gruppo di osservazione, tenuto conto della data di inizio di espiazione della pena (criterio obiettivo che viene sempre rispettato) e delle eventuali Camere di consiglio per la discussione di un beneficio, fissa il calendario delle riunioni di équipe che segnano la fine della prima fase di questo processo di osservazione, prima fase che si chiude con la famigerata “sintesi dell’osservazione” e che non è altro che un documento ufficiale che viene inserito nel fascicolo del detenuto ed è firmato da tutti gli operatori che hanno condotto l’osservazione del detenuto.
Prima di spiegarvi cos’è questo documento vi riassumo brevemente il ruolo dell’assistente sociale e quello dell’educatore nell’osservazione del detenuto.
Dunque, l’assistente sociale, oltre a conoscere personalmente il detenuto in carcere, si interessa di contattare le persone significative per il soggetto, ovvero i componenti della famiglia, o le persone conviventi, il datore di lavoro, gli amici, talvolta, che hanno un rapporto significativo per la vita del soggetto.
Essa contatta anche gli enti territoriali, Comune, Cooperative, datori di lavoro che possono dare informazioni o elementi utili a ricostruire il percorso del soggetto in detenzione.
L’educatore osserva più propriamente il comportamento del detenuto dal suo ingresso in carcere fino alle sue dimissioni.
Come è fatta la “sintesi”, che cosa viene scritto in essa?
Durante la riunione di équipe, che è presieduta dal Direttore, ogni operatore riporta le proprie osservazioni e riferisce: sull’ambiente esterno del detenuto e sulle informazioni avute tramite i colloqui effettuati con i familiari del soggetto, lavoro dell’assistente sociale; sul comportamento e sulle attività svolte durante la carcerazione, sulla qualità dei rapporti interpersonali all’interno del carcere, riferisce l’educatore ed anche un rappresentante della Polizia Penitenziaria, di solito il Comandante.
La psicologa descrive il profilo psicologico del detenuto, delineando i punti di forza ed i punti deboli della personalità del soggetto.
Il Direttore che ha ascoltato le osservazioni riportate dai tecnici dell’osservazione conclude la discussione con un ipotesi di trattamento espressa in accordo con gli operatori,accordo che si cerca di raggiungere quasi sempre.
L’ipotesi di trattamento si sofferma sulle modalità in cui il soggetto in esame dovrà seguire il trattamento penitenziario e, se esistono i termini, si delineano le modalità di reinserimento all’esterno: permessi premio, lavoro all’interno dell’istituto o all’esterno e misure alternative, qualora il detenuto abbia fatto richiesta in questo senso durante l’osservazione.
Questo documento va inoltrato al Magistrato di Sorveglianza che lo approva, se non ravvisa elementi lesivi dei diritti del detenuto.
La “sintesi”rappresenta una fotografia fino a quel momento del detenuto e sarà tenuta in grande considerazione per la concessione o meno dei benefici penitenziari. Ad ogni modo la sintesi, nel corso della carcerazione, può essere aggiornata qualora si ravvisano o maturano condizioni diverse circa il trattamento del detenuto.
Aggiungo che la riunione di équipe è integrata da un operatore del Ser.T. quando si tratta di detenuto tossicodipendente, tale operatore riporta in modo più dettagliato l’insorgenza e le tappe della tossicodipendenza del soggetto ed informa gli altri componenti dell’équipe del programma terapeutico concordato con il detenuto.
Al termine di questo processo a cui hanno partecipato tutti gli operatori del trattamento penitenziario viene comunicato all’interessato che l’osservazione è chiusa.
Il detenuto, tramite il proprio legale di fiducia, può prendere visione della relazione,facendone richiesta all’Ufficio del Magistrato di Sorveglianza.
Nota della redazione
Lo spazio concesso e la sintesi conseguente dell’articolo sull’attività trattamentale ha per forza di cose ridotto la possibilità di un’esposizione più completa, e non c’è stato lo spazio per parlare di tutte le altre figure che interagiscono, e tra questi l’assistente volontario, che fa parte a tutti gli effetti degli operatori del trattamento e che può partecipare all’équipe per quanto di competenza ed interesse (vedere: protocollo d’intesa dell’8.6.1999 tra Ministero della Giustizia e Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, circolare del D.A.P. n. 3528/5978 del 18.7.2000 e circolare del D.A.P. n. 3534/5984 del 20.11.2000, e precedenti).
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Pacchi
di Picci (F. C.)
Dal giorno ventuno del mese di maggio di quest’anno all’interno della casa circondariale di Rovigo sono mutate le norme che regolano l’ingresso di pacchi vittuari, nei giorni dei colloqui, portati dai familiari ai congiunti.
Formalmente il detenuto che ritiene di poter ricevere delle pietanze cotte o altri generi alimentari dai familiari dovrebbe prima fare una richiesta scritta al direttore dell’istituto e nella richiesta specificare qualità e quantità di quello che i parenti porteranno e, solo successivamente, avvisare questi ultimi se è stata concessa l’autorizzazione. Nella realtà dei fatti e nella sostanza dalla fatidica data del ventuno maggio scorso non sono più entrati pacchi vittuari. Infatti la nuova disciplina impedisce alla fonte la possibilità di far entrare con autorizzazione i generi alimentari.
Nelle decisioni assunte, pur dettate da una certa logica, non è stato tenuto in considerazione un fattore determinante per tutti coloro che sono rinchiusi nelle carceri, cioè che non si tratta solo di un rifornimento di cibi e alimenti vari ma è un ricevere in dono manufatti familiari, prodotti con il sentimento e l’affetto che esiste tra consanguinei, gesti, insomma, che vanno al di là del semplice dato alimentare.
Non riusciamo a comprendere come si possa pensare di voler ridurre il rapporto affettivo che intercorre tra il detenuto e i suoi congiunti in una logica di funzionalità da grandi magazzini.
Contemporaneamente nessuno nega l’evidente presenza del servizio di approvvigionamento viveri che, ad ogni richiesta, può fornire il detenuto dei generi di cui abbisogna e nessuno mette in discussione la funzionalità di questo servizio. Ma tutta quella serie di aspetti affettivi che si celano nel pacco di viveri che arriva da casa, nel nostro stato di detenzione, che ripeto è proprio per questa particolarità, non può non essere tenuto in considerazione perché lì c’é molto di più per ognuno di noi e incide nel profondo degli affetti più intimi.
L’esistenza delle persone detenute non sempre può essere contrassegnata da fredde e funzionali regole, ma in certi frangenti può trovare risposte che tengano conto delle necessità affettive ed emozionali, soprattutto nel caso di persone che per un tempo quasi sempre enormemente lungo vengono private non solo della libertà ma anche dei sentimenti da esprimere, che invece sono viatici fondamentali per vivere e non regolamentabili in tabelle di acquisto o vendita.
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Teatro, tra finzione e realtà
di Giulia Fedrigo
Il teatro è un grande mezzo per comunicare, sotto qualunque forma venga rappresentato. All’interno del carcere è sicuramente un’espressione di libertà. Durante la “finzione”, in fondo, pur interpretando una parte, recitando un copione, si può essere se stessi. A pensarci bene ognuno ha una sua modalità per interpretare una parte o un soggetto e, perciò, è anche l’originalità di ogni attore che contraddistingue la finzione. Rispetto al cinema ho la convinzione che l’espressività teatrale sia più vera, più libera, meno oppressa dentro schemi prefissati, meno contratta e soprattutto unica.
L’emotività dell’attore viene percepita subito dal pubblico, proprio per questo contatto diretto che crea trasmissione di emozioni, cosa che in altre espressioni artistiche non può essere per forza di cose.
Se poi caliamo il tutto nell’ambito detentivo e pensiamo al pubblico ristretto aumentiamo la difficoltà d’impatto che un ambiente come il carcere può creare. Non è facile, infatti, catturare l’attenzione perché è un pubblico dispersivo, che può avere meno attenzione o essere troppo critico e lontano rispetto a certe tematiche.
Noi ristrette della sezione femminile, lo scorso sette luglio, abbiamo messo in scena uno spettacolo dal titolo “Prove per uno spettacolo che non si fa”. Il contesto nel quale si è snodata la pièce non era dei più semplici e le implicazioni che ha toccato molto forti: ossessione, sesso, tenerezza, potere.
Siamo riuscite ad arrivare alla rappresentazione con molte difficoltà e mille perplessità, ma la forza e la tenacia che ha accomunato il piccolo gruppo, tre detenute e due volontari, ha fatto sì che l’operazione prendesse corpo e si potesse portare in scena.
E’ stato fatto a mo’ di schegge, uno spettacolo breve ma ... intenso! Aperto da un’introduzione di Sara e chiuso da Simone, i due volontari e registi la cui caparbietà e determinazione ha avuto ragione dei vari problemi sorti lungo il cammino. Infatti non sempre c’erano sufficienti motivazioni per noi detenute e in alcuni momenti sembrava che tutto potesse sgretolarsi, nonostante i mesi di preparazione, ma la loro pazienza e costanza nel crederci e trasmettercelo sono stati fattori fondamentali nella riuscita.
Durante lo spettacolo la cosa che mi ha colpito maggiormente è stata l’attenzione silenziosa di questo pubblico, che definirei strano. Questa attenzione ci ha dato quella forza di cui avevamo bisogno per non sentirci nel posto sbagliato a fare la cosa sbagliata, ha superato ogni nostra timidezza e paura. Ci siamo sentite accolte, ascoltate, e queste sono ulteriori ragioni che mi fanno pensare in positivo rispetto alla riuscita della rappresentazione.
Mi auguro che l’esperienza si possa ripetere, alimentando maggiormente la partecipazione delle donne detenute, per respirare un po’ di libertà, o illuderci di farlo, che in ogni caso ci aiuta a far trascorrere il tempo recluso che è quasi sempre noia e dolore di giornate che trascorrono tutte uguali.
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La morale
di Antonella De Pecol
Ma che morale e morale? In fondo quali esempi ha la nostra società, tra i politici soprattutto, per camminare su strade di onestà e rettitudine?
La morale non da diritti ma solo doveri, non impone nulla agli altri, non parla degli altri, essa impone dei doveri ad ogni singola persona. In fondo tutti conosciamo i nostri doveri ma spesso non li rispettiamo. L’automobilista sa che tutti devono rispettare i limiti di velocità ma lui non lo fa e corre. Il politico accusa l’avversario di menzogne, ma quante volte è lui a dire il falso? Questa modalità ipocrita, una moralità rovesciata, è il moralismo.
Il moralista si atteggia a persona integerrima ma fa ciò che vuole, ma che bel sentirlo parlare perché sa quel che è diritto, dovere, giusto, ingiusto, bene, male.
La conoscenza dell’interiorizzazione e della morale, secondo il mio parere, è un culto e una educazione, quasi religione, uno studio, è una preparazione del proprio corpo e mente.
In questo gli italiani hanno perso in parte molte conquiste. Come la rettitudine, che è una delle più grandi conquiste della civiltà.
E’ la base per il funzionamento del mercato ed è fondamento per l’onestà politica. Molti dei nostri uomini politici avevano dei buoni ideali di giustizia e di rinnovamento, di onestà, all’inizio della loro carriera. Però in un secondo momento si sono convinti che era indispensabile usare finanziamenti illegali per realizzarli.
Quello di cui parlo sono cose risapute, ma che purtroppo continuano a ripetersi.
Perché gli essere umani, troppe volte, cercano scorciatoie, strade più facili e quindi meno faticose che sembra semplifichino le cose.
Pensiamo a quella scritta che campeggia nei tribunali, siete convinti che la legge è uguale per tutti? Noi siamo qui fra quattro sbarre mentre loro sono ancora lì a governare, a dire e scrivere vantandosi della loro democrazia!
Questi parlamentari si sono guardati bene dall’approvare una legge che potesse in qualche modo scalfire l’immunità parlamentare, il che li autorizza ad agire come meglio credono.
E’ una casta che, seppur a prima vista trincerata su sponde diverse, quando si toccano i loro privilegi si compattano e fanno quadrato. E questo accade anche in altri settori quali l’industriali, la comunicazione.
Il senso di sfiducia che pervade i cittadini, rispetto alla morale indotta e mai percorsa dai nostri politici, non aiuta alla pacifica convivenza e alla commissione di un numero minore di reati.
Morale della questione: il buon esempio dovrebbe iniziare da lì ma, se aspettiamo qualche segnale in questo senso, è meglio armarci di santa pazienza.
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Voli di dentro
(poesie e quant’altro)
PERDONAMI
Se un giorno troverai un uomo che ti sappia amare quanto ti ho amato io,
ti lascerò perché tu possa avere una vita migliore
cosa che io non ti posso dare in questo momento,
e so anche dal profondo del cuore
di averti deluso nelle tue aspettative,
e questo è il più grande dolore che sto provando
in questo momento
e questo mi accompagnerà per moltissimo tempo
e solo Dio sa quanto dolore ho in corpo,
ma non posso e non ho la forza di dirti
amore mio non mi lasciare
io vivo per te, per il tuo amore;
ma che vita ti farei fare?
Amore mio tu meriti tutto il bene di questo mondo,
ma soprattutto un uomo migliore,
io ti ho amato più della mia stessa vita
e ti amerò per ogni istante della mia vita,
e che Dio abbia pietà di noi,
e se un giorno,
spero non molto lontano,
visto che mi sento morire di dolore,
verrà al morte
prego Dio che abbia il tuo dolce viso
e i tuoi meravigliosi occhi.
TUNNEL
Sono sola in un tunnel ad aspettare,
ma cosa sto aspettando?
Sono sola a pensare
ma cosa sto pensando?
D’improvviso un raggio nel buio
è la luce dei tuoi occhi che illumina
con uno sguardo la mia inutile vita!
LA NOSTRA VITA
La nostra vita è una guerra
spesso ci ritroviamo per terra
ma ci rialziamo sempre
con la forza della nostra mente.
Dentro di noi urliamo
ma fuori non ci spezziamo.
D’accordo, amiamo la sostanza
ma gli altri non fanno vacanza?
La nostra vita è dura
ma non per questo meno pura
Giulia Fedrigo
NESSUNO
Nessuno ti voleva così bene;
e nessuno mi voleva così bene;
sei stata il mio ultimo grande e meraviglioso amore.
Cosa vuoi che siano gli amori trovati?
Cosa vuoi che siano gli amori passati?
Nessuno aveva il tuo volto, eri una cosa mia
la mia dolce creatura, mi davi la forza di vivere,
mi davi la forza di continuare,
mi davi la forza di lottare.
Adesso vivo per vivere, non lotto più,
continuo per abitudine,
e verrà il giorno che troverò un’altra forza,
ma non sarà mai la tua;
troverò anche un altro amore ma non sarà mai il tuo.
Ritroverò anche il sorriso,
lo sento, sorriderò ancora alla vita,
anche se non ci sei più tu davanti alla mia vista,
e anche se sorriderò e anche se mi divertirò
sempre ti penserò,
e se quelli che mi vedranno così spensierato
penseranno che ti ho dimenticato,
tu sempre sappi caro amore
che mai un attimo ti ho lasciato.
IO VOGLIO
Con tutte le ragioni del mio torto
anch’io voglio vivere
in un mondo assai migliore.
Con tutta la rabbia della mia quiete
anch’io voglio trovare
un luogo dove amare sia ancora possibile.
Con tutta l’esperienza di giorni non vissuti
Anch’io voglio sperare
in un’ora in cui tutto tace ed è pace.
Ferdinando Cantini
PREGHIERA
Preghiera di muto silenzio
stamani gli occhi levano al cielo,
quante speranze si possono affidare
a un raggio di luce, che
inaspettatamente, solo ti raggiunge.
Preghiera di bianche chimere,
perché non ti vuoi rassegnare,
ma, non osi più sperare.
Preghiera di uomo libero, che
le circostanze hanno ferito,
ma che i suoi sogni, ancora
non sono stati imbrigliati.
Preghiera, prima di cadere in ginocchio,
perché lo spirito è ancora giovane,
vuole sentirsi libero e ...
continuare a correre, ma
non intravede più la sua meta.
Ferdinando Cantini
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