«Prospettiva Esse – 2002 n. 1»
Indice
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Da giornalino a notiziario dal carcere
di Sergio Sartori
Le mille facce dell’Italia, delle contraddizioni di una nazione che contrappone modelli d’amministrazioni all’avanguardia a sistemi superati e lontani dall’essere al servizio del cittadino, s’incontrano anche nelle carceri, e non può essere diversamente.
E’ il nostro Paese, con tutta una serie di realtà che quotidianamente apprezziamo o condanniamo, in ogni campo. In una legislazione comune per tutti, la differenza viene fatta dagli uomini, dalle loro sensibilità e intuizioni, dal loro modo di gestire e più ci si avvicina al meglio o al disagio, tanto più cresce la constatazione che è sempre l’uomo il protagonista degli eventi, nel bene e nel male. In una realtà, come la nostra, propensa ad ignorare e delegare ad altri il compito di intervenire per il reinserimento nella collettività di chi ha sbagliato, sembra non interessi come ciò avvenga. L’importante è isolare dalla società civile chi ha infranto la legge.
“Scattano le manette” o “si aprono le porte del carcere” è un refrain comune nelle cronache dei giornali. Poi il nulla. Il carcere è un’isola nella comunità, fa angoscia, non fa notizia, non fa uscire comunicazioni, non incuriosisce.
Eppure in questa città blindata da sbarre e porte di ferro, dove agenti e detenuti dividono gli stessi spazi, invertendosi solo i ruoli, s’incrociano storie, costumi, destini e speranze.
Noi vogliamo raccontarle tutte. “Prospettiva Esse” da giomalino del carcere, fatto da detenuti per detenuti, vuole fare un passo in più e diventare un notiziario dal carcere.
In tanti ci aiuteranno, dai detenuti ai volontari, dagli enti locali all’amministrazione penitenziaria, a diventare parte di una comunità, quella polesana, che nella solidarietà ha sempre avuto una marcia in più.
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Piccola riflessione
di Giuliano Cagnin
Le strade della devianza e dell’emarginazione sono percorsi non sempre riconducibili a logiche evidenti, ma bensì sono spesso combinazioni e risultati di altri e più segnanti accadimenti. Una volta dentro la spirale del disagio può succedere tutto e il contrario di tutto, ma quello che in ogni caso influisce maggiormente nel ricucire strappi di dolore è il calore e l’accoglienza che diventano viatico per ritorni sempre sperati ma di assai difficile realizzazione.
Una persona si sente delinquente non, quando è fuori del carcere e commette reati e crimini ma quando viene arrestato.
Non è tutto qui.
Ci si deve render conto che si ha a che fare con la giustizia e la cosa più importante e grave è quella che si lascia fuori, dove si sono combinati i “guai”: la famiglia, gli amici, la gente che conosci.
Questa la ritengo una sacra verità: la sofferenza comincia nel rendersi conto di questo passaggio.
Si è diventati delinquenti o perché si è veramente, oppure è stato solo un episodio d’egoismo?
O magari per farsi vedere grandi e agli occhi di chi?
Lascio, a tutti coloro che la leggeranno, questa riflessione di così poche righe ma che può essere sicuramente motivo e inizio per altri pensieri.
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Immigrazione e povertà
di Ines Marin
Sono una ragazza straniera e come tanti altri stranieri mi trovo in carcere per droga. Siamo giudicati dalla giustizia ed anche dalla società. Nessuno si ferma mai a chiedersi perché facciamo questo. Qual è l’impulso che ci spinge a fare determinate azioni? Motivi diversi. Fondamentale è la povertà, il desiderio di poter dare un futuro migliore ai nostri figli. Rischiamo la libertà, non è poco, a volte la vita.
La società pensa che lo facciamo per diventare ricchi, avere la possibilità di poter comperare ciò che più ci piace. Non si rende conto che spesso non abbiamo nemmeno il necessario. Penso, credo, che se una persona, considerata “pulita” che ha una vita normale, un lavoro, una casa, potesse chiedere ad un detenuto perché hai fatto questo reato, riuscirebbe ad avvicinarsi a ciò che è la verità. Arriviamo dal Sud America, rincorrendo un sogno di vita normale, ci ritroviamo in carcere. Posso dire questo anche perché nell’esperienza carceraria ho conosciuto persone che fanno uso di droga. Io No. Perché alcuni si, mi sono chiesta? E solo il poter vivere e parlare con loro mi ha permesso di comprendere che non sono le persone che ci vengono dipinte all’ esterno come malati infetti. Sono persone che a mio parere hanno motivi. Qualcuno si attacca alla sostanza per dimenticare un brutto guaio o non ha trovato altra via d’uscita. Qualcuno perché gli piace, per curiosità, per noia, per dare un senso alla realtà che li circonda, cercando di dare a modo loro un senso alla loro vita e, paradossale, sanno di ridurre la vita e vanno avanti. Un po’ ci assomigliamo. Non ci sono più nobili e meno nobili. Il giudizio della società è la peggior condanna, non si pongono il problema del perché esistono questi problemi e se guardiamo un po’ altrove vediamo che molti figli di potenti si comportano uguale. Ma proprio perché appartenenti alla società ricca, perbenista, non sono giudicati, ne condannati. Questa è un’altra cosa che mi fa pensare. Nella società esiste il pro ed il contro. Il pro è favorito dal potere e dal denaro. Ove è possibile si corrompe qualcuno in altri casi una difesa eccellente, il che porta a risultati ottimi ed i grandi escono indenni. Chi non ha potere economico si ritrova una difesa d’ufficio che, come ben si sa, non porta a niente di buono. Pare una farsa, e si viene sicuramente condannati. per chi non lo sapesse. L’ingiustizia è determinata dal potere economico, poche le persone al di sopra delle parti.
Dietro le sbarre è ormai tardi per capire il valore della libertà. Un immenso valore, ma pur essendo artefici del potere decisionale, di scegliere la via migliore per un futuro giusto, per noi e le nostre famiglie spesso non ci è data la possibilità di perseverare nella retta via. Non si vede via d’uscita.
Naturale che si pondererà di più e di meglio, ma non ci è dato dire con certezza “Non lo farò mai più”. Voglio solo sottolineare che nessuno nasce “delinquente”. E’ il percorso della vita che ti porta a seguire una strada più che un’ altra.
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Credere nell’esperienza “Pigotte”
a cura della Sezione Femminile
Al progetto “Pigotte” indetto dall’Unicef alcune detenute della sezione femminile del carcere di Rovigo hanno partecipato attivamente alla produzione di queste bambole.
Un’esperienza nuova! La novità porta curiosità ed, in questo caso, anche una possibilità per dimostrare che sebbene ristrette per non aver rispettato la legge, siamo persone con sentimenti positivi.
Il progetto Pigotte ha previsto che le bambole, dopo il loro confezionamento, fossero vendute per aiutare i Paesi in via di sviluppo. Con i soldi ricavati dalla loro vendita alcuni bambini hanno potuto avere l’opportunità di essere vaccinati contro le sei principali malattie infettive che da noi in Europa sono obbligatorie, da loro purtroppo non è così!
E’ stata un’esperienza positiva per molte di noi che sono madri, in qualche modo abbiamo procurato delle sicurezze sanitarie ad un bambino che potrà, in questo modo, affrontare la crescita più tutelato. E’ una manifestazione di affetto. Le detenute che hanno attivamente partecipato lo hanno fatto volontariamente. Una di noi ha potuto presenziare alla illustrazione del progetto tenutasi a Palazzo Roncale.
Il nuovo anno è appena cominciato e certamente l’Unicef ci darà un’altra opportunità a cui sin d’ora siamo disponibili.
Il nostro può essere anche un modo di riscattarci agli occhi della società e renderei consapevoli che, prima di essere detenute, siamo persone convinte che vi può essere una sofferenza superiore alla nostra. Una motivazione in più per partecipare senza fine alcuno a questi progetti.
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Musica in carcere
Siamo un gruppo musicale dell’underground rodigino. Abbiamo avuto recentemente l’onore e la gioia di vivere un’esperienza che, oltre ad averci vivamente entusiasmati, ci ha arricchito e maturato nei nostri rapporti con gli altri. Domenica 6 gennaio 2002, giorno dell’Epifania, il nostro gruppo ha animato il pomeriggio degli ospiti della Casa Circondariale di Rovigo. Noi, menestrelli di strada, suonatori da pub e osteria, abbiamo vissuto veramente l’ebbrezza del “concerto” perché assieme a loro si sono accesi il colore e l’entusiasmo che hanno scaldato e reso magica l’aria della Cappella della Casa Circondariale.
Poiché a distanza di tempo i “fans” che ci hanno sostenuto e applaudito si sono fatti sentire tramite i volontari che hanno accesso al carcere, ci sentiamo in dovere di ringraziare con sincera simpatia tutti gli ospiti che ci hanno ascoltato e calorosamente appoggiato, facendo loro saper che il piacere di stare insieme è stato reciproco e che siamo sempre pronti ad un eventuale ritorno.
Firmato: I Folletti del Grande Bosco.
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L’età più bella, bruciata!
di Gianluca D.
Avevo vent’anni con dei sogni che si limitavano giorno dopo giorno: ero diventato un malvivente! Così diceva la gente, ma non si sono mai domandati come sono cresciuto io! Ero una pianta verde, un ragazzo pieno di vita, fino a quando non ho incontrato il buio “la droga”.
lo sono uno “scugnizzo” che è cresciuto per strada e ho voluto sempre andare avanti da solo. Mai nessuno si è curato di me. Adesso ho 25 anni e mi sono perduto perché ho scoperto di aver sciupato la mia vita, mai un amico mi ha teso una mano, perciò mi sono buttato nella droga, ed ora per colpa di un altro mi trovo in carcere.
So anche che un giorno, non oggi ma forse domani, ci sarà qualche ragione che metterà fine a questa mia esistenza! lo sto cercando quel giorno: che ne faccio di questi 25 anni? Mi sento solo una mela marcia e sopravvivo cercando di dimenticare.
Non vi nascondo che il mio arresto è stato fondamentale per me, perché ho appreso in 5 mesi quello che non avevo compreso in 5 anni di libertà, mi spiego.
Stando in carcere ho riflettuto molto sulla mia vita ed ho cambiato idea su molte cose che prima pensavo si potessero combattere solo con la morte. Ora è cambiato tutto perché ho avuto modo di capire quanto sia importante la vita e ho imparato che il carcere non sempre è crudele per chi vive questo tipo di esperienza. Nel mio caso è stata positiva, perché mi ha salvato la vita e poi mi ha insegnato quanto sia importante la parola “Libertà” come è bella .... lo ho buttato i miei cinque anni più belli della vita. L’età in cui tutto mi è apparso buio, se n’è andata la donna in nero che mi voleva rubare l’anima e la vita, invece con questa esperienza carceraria è cambiata la mia anima e posso solo ringraziare “DIO”.
Prima non credevo che esistesse, ma ora penso che il mio arresto sia stato un suo segno per avvertirmi che in realtà c’è Dico tutto ciò a voi lettori, perché questo possa servire come esempio, per tanti ragazzi che come me bruciano i migliori anni della loro vita.
Vi saluto e vi ringrazio di avere letto la mia brutta storia.
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Carceri: un problema che trova radici nella realtà politica del Paese
di Ferdinando Cantini
Il ventesimo secolo è ormai un pezzo che è cominciato e nel calderone che sono le carceri italiane, viene messo di tutto, idee, mezzi, personale umano con varie idee organizzative, ma dentro il “calderone” sono i detenuti che continuano a ribollire nel brodo delle molte promesse sempre disattese.
Nemmeno il Giubileo è riuscito a dare la spinta necessaria per superare lo scoglio dell’indifferenza di chi proprio non vuole vedere come si vive nelle carceri italiane.
Divengono così inutili sia le leggi migliorative che l’opera di quanti si applicano per rendere il carcere vivibile secondo canoni da ventesimo secolo e non secondo concetti medioevali.
La riforma penitenziaria del 1975 introduceva, per la prima volta, l’idea di un carcere vivo e vivibile, che non fosse isolato ed escluso dalla società, e che fossero riservati spazi di comunicazioni con la comunità esterna.
La grande portata e cultura della riforma del 1975 sanciva un principio innovatore: l’esecuzione penale non è prerogativa esclusiva dell’istituzione penitenziaria, ma è aperta agli apporti e contributi degli “enti locali” e del territorio.
Successivamente la legge Gozzini, del 1986, fece un ulteriore passo in questa direzione e, prevedendo nuove misure alternative ovvero potenziando quelle già esistenti, affidava alla collettività il compito di contribuire al reinserimento sociale dei detenuti che scontano la pena all’esterno del carcere.
Purtroppo la situazione politico sociale del nostro Paese si evolve ad una velocità di molto superiore a quanto avviene nelle carceri e così i nuovi problemi di disagio sociale, quali l’emarginazione giovanile, la disoccupazione, l’immigrazione extracomunitaria e la tossicodipendenza, non trovando altre soluzioni nel contesto sociale, vengono risolte con la panacea del carcere.
Infatti il numero dei condannati è sempre in continuo aumento e, allo stato attuale sembra che questa situazione non sia affatto reversibile.
Questo può essere, ed è, il quadro riassuntivo di una situazione nota a tutti, o perlomeno è nota agli addetti ai lavori e, in più, a quanti si interessano alle problematiche esistenti nel mondo carcerario.
Esiste la consapevolezza che il carcere è un luogo di tensioni, di conflitti e di paure, come esiste la consapevolezza che fino a quando la popolazione carceraria non sarà in numero adeguato alle strutture penitenziarie esistenti e al numero del personale civile e di polizia che vi operano, nessuna legge o riforma potrà risolvere in modo positivo i molti problemi che si sono annidati, al riparo degli occhi della coscienza collettiva, tra le mura delle carceri.
Allo stato attuale, per come stanno le cose, non può che essere necessario “un atto di clemenza” generalizzato, in quanto è utile ad un preventivo sfoltimento del contenitore calderone che oggi sono le carceri. Non c’è, ne ci può essere, alcuna altra soluzione per poter avviare la macchina delle riforme e della ristrutturazione delle carceri e rendere più umana e vivibile la vita dei reclusi, degli agenti e di quanti vi operano.
Va posto in evidenza un aspetto penso non considerato a sufficienza: un atto di clemenza ristabilirebbe un equilibrio all’interno delle carceri e consentirebbe una veloce applicazione delle riforme (a tutt’oggi non applicate correttamente e coerentemente) e del processo di modernizzazione che vorrebbe essere attuato.
Anche se i mass-media perseguono ad oltranza, quasi sempre, il fine di porre in risalto il caso singolo negativo di chi beneficia delle alternative previste dalle riforme, omettendo, sempre, di ragguagliare la gente delle vere informazioni, di quanti invece sono i casi positivi, creando così ogni genere di psicosi nell’opinione pubblica. E’ innegabile che se si vogliono trasformare le carceri in qualcosa di più consono, le riforme, nate dalle leggi Gozzini e Simeone, vanno salvaguardate e dove è possibile integrate con nuove aperture.
C’è ad esempio la proposta legislativa dell’aumento del beneficio della liberazione anticipata, che è da molti anni ormai che staziona sui banchi del Parlamento, ma non si trova il coraggio di procedere, nonostante più volte sia stata palesata l’utilità di questa nuova applicazione. La riforma citata era presente in un pacchetto di proposte di legge ancorato si alla Commissione Giustizia della Camera e prevedeva l’ampliamento della liberazione anticipata da 3 mesi a 4 mesi per ogni anno di pena espiata in partecipazione attiva ai programmi di re inserimento, che il detenuto persegue.
Tra le motivazioni addotte a questo cambiamento innovativo, c’è la necessità di adeguarsi a criteri già presenti negli altri Paesi europei. Come mai nessun politico e nessun opinionista si sente di acclarare la necessità di proseguire anche questo adeguamento con gli altri Paesi? .. E si che per un nonnulla si aprono continue crociate a spada tratta per l’adeguamento con gli altri Paesi per ciò che concerne gli aspetti repressivi.
Non sarà che i politici italiani invece che pilotare il nostro Paese verso i traguardi che gli altri hanno già raggiunto, stanno operando affinché avvenga una regressione negli altri tale che possono adeguarsi a noi? Concludendo, ciò che si rende necessario per abbassare la fiamma nel “calderone” che sono diventate le carceri, oltre all’atto di clemenza improcrastinabile, si dovrebbero rendere operative le riforme che ancora giacciono in cantiere, ovviamente attuando le vigenti norme che, bensì a qualcuno non piaccia, hanno fornito gli unici segni positivi e innovativi che si possono oggi segnare.
Non pare infatti che altri Paesi europei possono registrare esiti migliori dei nostri in materia di (rispetto) delle misure alternative al carcere quando concesse.
D’altronde, se è vero che la democrazia di un Paese la si può riscontrare anche dalla vivibilità delle carceri, potremmo essere noi, per una volta, a dare il primo esempio positivo. E questo è un treno che sarebbe meglio non perdere più.
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Panoramica su ciò che ribolle nelle carceri
di Ferdinando Cantini e Giulia Fedrigo
È accertato che la pena detentiva, cosi come oggi viene intesa e somministrata, non aiuta il detenuto a reinserirsi, ma anzi rovina i rapporti con la famiglia e con la società che preesistevano all’arresto. Aumenta l’odio e la violenza e provoca in lui una preoccupante esigenza di rivalsa e, purtroppo, il cordone ombelicale con il carcere rimane duro da tagliare definitivamente. Non è un caso, infatti, che quasi i tre quarti dei detenuti tornano più volte in carcere.
Se le esigenze primarie a cui dovrebbe assolvere una pena sono: la difesa della collettività, il deterrente a compiere nuove azioni delittuose e il recupero di chi delinque, ciò non lo si può ricavare da come oggi viene intesa e inflitta la pena.
Che l’impalcatura giudiziaria e il carcere così come oggi si presentano e si esercitano, non sono più funzionali e coerenti in una società che ha superato la cima del secondo millennio è così ovvio da sostenere che ormai nessuna delle Grandi Menti dissipa il suo tempo in tanta ovvietà.
Sono in cantiere molte e diverse iniziative di restauro sia per “l’esercizio giudiziario” che per il rafforzamento delle carceri, ma ci chiediamo se in ciò vale la pena spendere energie e mezzi.
Per meglio comprenderci proviamo ad individuare i principali scogli su cui vanno anche le migliori iniziative di ristrutturazione:
Giustizia: “lentezza dei processi”, dal momento della contestazione penale o dell’ arresto trascorrono diversi anni prima che si possa arrivare ad una sentenza definitiva di condanna o di assoluzione.
“Custodia cautelare”, anche se dovrebbe essere l’eccezione a salvaguardia della collettività nei casi più cruenti di allarme sociale, di consuetudine viene applicata indiscriminatamente e insensatamente.
“Magistratura”, al di fuori delle diatribe di indipendenza del potere politico “falso problema” che nasconde con la maschera dell’arroganza una verità difficile da dirigere, nel nostro Paese esiste lo strapotere del Pubblico Ministero nei confronti dell’avvocato e del Giudice e ciò toglie al magistrato le prerogative accusatorie in funzione di quelle inquisitorie.
“Codice penale”, è un reperto storico e come tale andrebbe custodito e non più utilizzato, ma soprattutto andrebbe salvaguardato dalle piraterie dei mestieranti delle riforme insensate e nocive.
“La pena”, dovrebbe essere chiarito, una volta per tutte, quale funzione si vuole che abbia; nel momento sacrale dell’ esecutività dovrebbe lasciar trasparire chiari concetti di giustizia, certezza, equità e applicabilità predeterminata e non affidata a casi o necessità momentanei.
Carceri: “sovraffollamento”, il carcere non può essere un ripostiglio in cui vengono immagazzinati coloro che a qualsiasi titolo giuridico vengono esclusi dal partecipare al concorso sociale. Il carcere prescinde a momenti esecutivi e restrittivi ben qualificati con precisi doveri e diritti. Dovrebbe essere come un autobus di linea ... non tutti gli aventi il biglietto pagato, possono salirvi. C’è un numero fisso di posti a sedere. Niente posti in piedi per viaggi lunghi e anche se possiedi il biglietto, aspetti la prossima corsa con un posto libero. Il biglietto, ogni biglietto, esecutivo o restrittivo che sia, da diritto a tutto questo e una società civile, anche nel momento che ti esclude dovrebbe saperti garantire.
A conclusione di questa veloce panoramica, la realtà delle cose ci indica che l’obiettivo della risocializzazione del detenuto, nonostante sia perseguito con un notevole spiegamento di mezzi, persone e risorse, rimane irraggiungibile e almeno per la maggior parte dei casi, resta un’utopia proprio a causa del mantenimento di un’impalcatura giuridico-penale restrittiva che ancora le sue radici in epoche medioevali.
Si sta parlando “di pena giusta e certa”, tutto questo potrà avvenire soltanto se si vorrà partire con una riforma che rivoluzioni tutto il sistema dalla base. Non si dovrà mai rimuovere questo aspetto del problema “giustizia e carceri” dalla coscienza collettiva: le leggi dello Stato, per essere veramente giuste, devono puntare indiscriminatamente a pene che non escludono la via della riconciliazione e del recupero del reo, affinché avvenga una effettiva riabilitazione che reinserisca nuovamente nella collettività.
Solamente quando sarà evidente che nessuna delle iniziative percorse per recuperare il reo avrà avuto successo, diverrà, giusta, la pena che reclude il soggetto impedendo ogni contatto con la società fino alla completa espiazione.
Questa situazione ibrida dell’è e non è non assolve a nulla, ma esaspera le energie di chi opera e di chi subisce. Una domanda provocatoria: “quanto costa e quanto pesa l’idea di voler fissare un punto di origine - zero - da cui dar inizio ad una nuova era?”. Naturalmente senza portare appresso nessun bagaglio del passato che è presente, se non la memoria storica di tutto ciò che era.
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Sert e tossicodipendenza
di Giulia Fedrigo e Ferdinando Cantini
Ogni tanto torniamo di moda e oggi più che mai”. Di qualche giorno fa la novità: una nuova definizione socio giuridica per i tossicodipendenti <malati psichiatrici>. I tossicodipendenti dopo essere stati considerati, per anni, soggetti labili a cui mancava la giusta quantità di endorfine (quantità mai scientificamente resa nota), oppure persone che non hanno mai superato la fase infantile della coazione a ripetere, dei prodotti della povertà non solo economica ma anche culturale, si sono visti colpevolizzare di molti mali che affliggono la società.
L’opinione della gente comune è stata nutrita con ogni sorta di nefandezze, e i tossicodipendenti in generale sono stati tacciati come diffusori di aids, ma la prevalenza delle opinioni costruite sui tossicodipendenti, attribuiscono a loro incoerenza, mancanza di volontà e dignità, e per questo disposti a tutto per la loro “dose”.
Le meno acerbe delle definizioni, ci hanno dipinti come malati, prima di nostalgia e poi foglie sbattute al vento, oppure come “sessantottini” falliti. L’attuale definizione ci colloca in una nuova precisa posizione, cioè di malati psichiatrici, tutto ciò presuppone nuove metodologie per affrontare l’annoso problema, ma una cosa è chiara da subito, finora, o meglio nel passato, non si è prestata una sufficiente attenzione al tossicodipendente e alle motivazioni induttrici ad un uso sistematico di sostanze stupefacenti.
Questa nuova definizione però comporta anche inquietanti interrogativi, ad esempio: se un tossicodipendente è un malato psichiatrico come tale e perché tale, deve essere curato e non perseguito con la repressione del carcere, per le sue azioni da tossicodipendente questa domanda se ne concatena un’altra: cosa ne sarà dei tossicodipendenti già in carcere; e, se non è possibile al momento porre rimedio per quanti sono già carcerati, non sarebbe forse lungimirante iniziare a porre, da subito, un freno all’arresto di nuovi tossicodipendenti e curarli perché considerati malati?
A parte qualche caso sporadico, vedasi il soggetto cocainomane assolto dai reati commessi perché considerato malato, siamo stati sempre perseguiti dalla legge perché giudicati in grado di decidere in piena facoltà mentale. Viene dunque da chiedersi: cosa nasconde questo nuovo exploit, non sarà che il primo passo di avvicinamento alla privatizzazione dei Sert (proposta governativa). Il Manifesto titolava a caratteri cubitali “Dal carcere alla brace”. Privatizzazione della detenzione di un tossicodipendente = comunità.
Sentir parlare di privatizzazione della carcerazione del detenuto tossicodipendente evidenzia la lungimiranza in tal senso adottata a San Patrignano. Ma bisogna anche stabilire se tutto ciò è stato o è positivo, e se lo è in quale misura. Neanche nel carcere più duro sono mai state tollerate licenze di deroga alla civiltà e all’umanità che nel silenzio delle coscienze, sono state consentite a San Patrignano. Ci sono diverse comunità in Italia, ma che si sappia, in nessuna è stato commesso un omicidio, e soprattutto nessun responsabile di comunità è mai stato processato e poi condannato (8 mesi con sospensione pena) per favoreggiamento in omicidio di un ospite della comunità.
Derogare a terzi la gestione di un problema sociale quale può essere il problema della droga e del recupero dei tossicodipendenti, presuppone comunque una silenziosa accettazione del concetto di guadagno seppur minimo, che dovrà essere salvaguardato poi come base sociale. La struttura pubblica fino ad oggi ha sempre perseguito fini mirati al decoro sociale attraverso il recupero del soggetto tossicodipendente. Ci sono molte ombre, o meglio non c’è chiarezza sul motivo per il quale si è voluto effettuare una virata di rotta di 1800 definendo, o volendo definire, il tossicodipendente come malato psichiatrico. Le comunità potrebbero non essere più quei luoghi di accoglienza, dove in molti concorrono affinché si renda nuovo decoro alla vita dei soggetti ospiti, mirando al loro possibile recupero. Le comunità potrebbero iniziare ad essere luoghi di ghettizzazione per i tossicodipendenti, i quali comunque dovrebbero concorrere al conseguimento di un bilancio positivo nella gestione della comunità. Se il carcere si è ormai dimostrato un’ipotesi fallimentare per il recupero e il reinserimento del tossicodipendente, tanto più fallimentare diverrebbero le comunità, se verrà assegnato loro il compito di sostituire il carcere nella custodia dei nuovi malati di tossicodipendenza.
Pensiamo che le comunità possano svolgere un ruolo importante, ma solo quando sono strutturate e finalizzate per far meditare e riflettere il tossicodipendente, concedendo gli un momentaneo periodo di stacco della realtà quotidiana. Per quanto errate e non condivise, le scelte di una persona non possono essere mal condizionate con assurdi concetti di premialità sociale. E’ un po’ come il concetto del rapporto tra genitori e figli. I figli si mettono al mondo, gli si insegna a comunicare, gli si insegna a conoscere il bene e il male, secondo il giudizio dei genitori, ma poi i figli devono essere lasciati liberi di volare verso mete da loro prescelte. I genitori possono condividere e non condividere le scelte dei figli, possono anche consigliare, ma ad un certo punto si devono mettere da parte perché i figli hanno il diritto di poter camminare autonomamente, anche se imboccano una strada sbagliata, perché devono vivere la loro vita. Quindi lasciamo pure che ognuno sia libero di andare nella direzione che più gli è consona, e lasciamo le porte aperte affinché ci sia possibilità di scelta se entrare oppure no, e che tutto questo si faccia senza speculare, giudicare e catalogare. Se la società non saprà assumere queste posizioni neutre e di rispetto verso l’individuo che le rifiuta, nulla potrà servire a mascherare o nascondere il problema della tossicodipendenza, nemmeno la privatizzazione dei Sert e che sia evitato di rincorrere una genialità che non è ancora nata a chi pensa di dare in gestione all’iniziativa privata, comunità Sert e tossicodipendenti; ricordiamoci sempre che l’iniziativa privata, mira comunque e sempre a conseguire un “guadagno”. Il guadagno non è da considerare un concetto di rapporto sociale deplorevole, anzi sarà sempre da incoraggiare chi lo persegue. Però ci sono settori in cui il guadagno è un fine lecito ed altri in cui settore invece, è un fine deplorevole.
Anche lo spacciatore finalizza il suo rapporto col tossicodipendente al guadagno e per questo lo Stato lo persegue e lo punisce. Come può lo Stato, lo stesso Stato che persegue lo spacciatore, oggi voler concedere a terzi di individuare la fonte di guadagno nel tossicodipendente. A questo punto sarà lo Stato che diverrà spacciatore di tossicodipendenti, ma soprattutto non potrà più arrogare a se il diritto di perseguire gli spacciatori.
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Differenze dovute al sesso di appartenenza
a cura della Sezione Femminile
La Redazione di “Prospettiva Esse” è composta da ristretti e ristrette.
All’interno del perimetro murario ci sono due strutture divise da altre barriere, le quali dividono la sezione maschile dalla sezione femminile. Le sezioni sono popolate a seconda del sesso di appartenenza. Anche se all’interno, cioè dalla parte delle mura viste dalla città, nulla di questo traspare, gli Enti sociali, le istituzioni e quanti partecipano professionalmente alla vita del carcere, sono edotti che all’interno di quest’ultimo vi sono sia maschi che femmine.
Però caso strano, nonostante questa conoscenza si verificano episodi che minimizzando, potremmo definire strani. Non come ultimo fatto, noi della sezione femminile e facenti parte della Redazione, lamentiamo la mancata comunicazione per poter presenziare al convegno di Firenze.
Ci domandiamo come si può alzare delle mura all’interno di altre mura? Architettonicamente questo sarà certamente possibile, ma culturalmente possono essere condivisibili barriere di discriminazioni sociale? La mancata comunicazione per consentirci di presenziare al convegno nazionale non è l’unica situazione di cui ci duoliamo, per esempio: come sezione femminile, pur dipendendo per la somministrazione del vitto dalla cucina funzionante nella sezione maschile, nessuna di noi è chiamata, come rappresentante di commissione della sezione femminile a presenziare al prelievo e alla preparazione del vitto.
Anche questa presenza di commissione vittuaria dovrebbe essere ritenuta un nostro inalienabile diritto. Ci chiediamo perché continuamente, con un perverso e strano rito di sorteggi, esso viene demandato alla sezione maschile.
Torniamo all’ argomento primitivo di questo articolo, il Convegno di Firenze: noi della sezione femminile, non essendo state informate per tempo, non abbiamo potuto presentare la richiesta di permesso idonea a presenziarvi, pur essendo interessate.
Questa possibilità dunque, rispetto a quanto avvenuto per la sezione maschile ci è stata preclusa. Per quale motivo? Nessuno, finora, ci ha fornito chiarimenti esaurienti.
Noi non vogliamo pensare che ci stiamo trovando al cospetto di un caso di misoginismo istituzionale. Siamo più propensi a supporre che tutto ciò si verifica per superficialità o indifferenza, se cosi fosse, purtroppo, non esistono argomenti o parole per controbattere.
Quindi noi vogliamo nutrire la speranza che mediante una maggiore attenzione e con una dose superiore di sensibilità, da parte di tutti, siano evitati simili comportamenti, frustranti e deludenti non solo per chi li subisce, ma anche per chi li compie.
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La guerra in Afghanistan
di Dennis Crovi e Silvano Dal Corso
La nostra è solo una riflessione personale, di come vediamo con orrore questa guerra, e con la paura che forse non finirà mai.
11/0912001 sicuramente una data che tristemente ci accompagnerà per tutta la nostra vita anche perché abbiamo il dovere di non dimenticare. Oggi, dopo tre mesi da quel folle gesto, mi trovo a scrivere, sulle inevitabili conseguenze che hanno portato altre migliaia di morti, “io speriamo che me la cavo” un pensiero egoista, ma è stato il primo che m’è passato per la mente quando ho saputo che L’Italia entrava in guerra, nonostante che gli americani con il supporto delle truppe alleate avessero conquistato tutte le città dei Talebani.
Personalmente ho più timore di prima specie se rammento che sono bastati un pugno di uomini per fare una strage. Adesso che sono praticamente sconfitti, non possono fare altro che ripetere quei folli gesti. Speriamo che sia solo un presentimento, anche se le lettere all’antrace, sono un dato di fatto che non lascia spazio a discorsi scaramantici. Inutile girarci intorno ormai siamo in guerra, specialmente se dobbiamo combattere contro questo nemico invisibile, e comunque, solo presunto e non certo.
Andarsene o morire
Gli uomini di Al Queda hanno soltanto poche ore di tempo. E di vita. Meno di 16 ore di tregua per decidere se arrendersi o morire.
I generali dell’ alleanza del Nord, che si sono arrampicati sulle montagne di Tora Bora per catturarli, hanno dato loro un ultimatum che scade oggi:«o si fanno catturare o verranno uccisi».
Alcuni leader, che hanno appoggiato Bin Laden fino all’ultimo, sarebbero pronti consegnare le armi. Questo proverebbe, secondo gli analisti, che Osama è riuscito a fuggire oppure è morto sotto i bombardamenti, con lo sganciamento della Blu- 82 la famosa «taglia margherite» che ha colpito le caverne devastandole. La missione era uccidere gli uomini di Al Queda e lo scopo è stato raggiunto.
Fughe e misteri
Ad accrescere il mistero della sorte c’è anche la notizia confermata dagli Americani che«un alto leader Talebano di Al Queda» sarebbe rimasto ferito nei bombardamenti e trasferito fuori dall’Afghanistan per essere curato «da persone alleate» . Il Pentagono, in ogni caso, non crede all’ultimatum né a parole come amnistia, tregua o perdono.
Confronto Parlamentare
Sull’ipotetico intervento in Somalia il presidente della commissione Difesa della Camera, Luigi Ramponi, per parte sua sottolinea che «non serve un nuovo passaggio parlamentare» e poco contano le obiezioni diessine, confermate dal segretario Fassino.
Discorso diverso invece per un impegno di soldati in operazioni di terra in Afghanistan, l’egida dell’Onu. In questo caso per il presidente della Commissione difesa servirebbe «un nuovo passaggio parlamentare».
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Vivere in guerra e cercare la pace
di Mejdi Keasnici e Luigi Nuray
Per noi scrivere è una nuova esperienza, una di quelle che nei primi momenti ti mettono un po’ di imbarazzo, come succede di solito per qualcosa che non hai mai fatto. Però c’è sempre una prima volta! Tutto ci era passato per la mente ma scrivere per un giornale no. Non è facile, ma una volta che si buttano giù le prime righe la penna scivola sul foglio e lo percorre con la forza dei nostri pensieri, delle nostre sensazioni.
Anche se siamo ancora giovani, la nostra vita è stata piena di avvenimenti che hanno segnato il nostro destino. Le esperienze sono tante, ma solo alcune ti cambiano e ti insegnano più di altre. Vogliamo, in queste righe, condividere con i lettori di quella che ci ha costretto a crescere: il nostro primo impatto con la guerra. Eravamo molto giovani quando è iniziata la guerra civile in Albania. E anche oggi, dopo quattro anni, viene ricordata come una grande catastrofe nella storia del nostro Paese. Abbiamo visto morire i nostri parenti, gli amici, la nostra gioventù.
Abbiamo assistito alla morte di nostri cari amici, di ragazzi che come noi avevano fretta di diventare uomini. Che appena compiuto il tredicesimo anno di età hanno avuto come regalo di compleanno un mitra o una pistola. Ragazzi che hanno combattuto una giusta causa in modo sbagliato.
Tutto questo deve farci riflettere e pensare. Infatti ci vorrebbe poco per star bene e basterebbe rispettare tutti e tutto. In relazione a quanto ci è accaduto stiamo male anche quando vediamo quello che succede in altre parti del mondo. Le guerre portano sempre danni umani e materiali. Noi albanesi siamo avvezzi alla guerra, ma ciò non significa che non vogliamo vivere in pace, anzi, è per quello che si combatte. Da quando siamo in Italia pensiamo solo a stare in pace, che significa rispetto reciproco ed uguaglianza. Questi sono i nostri principi e in base a questi organizziamo la nostra vita, anche qui in prigione. Tutti siamo qui dentro per uno sbaglio di comportamento, per un reato che abbiamo commesso e nonostante ciò affrontiamo la galera con dignità.
L’iniziativa del giornale “Prospettiva Esse” di coinvolgerci e far sì che possiamo condividere le nostre esperienze, di poter affermare quanto pensiamo e crediamo, è un aspetto molto giusto che, assieme ad altre attività, fa sì che possiamo trascorrere le giornate in modo più costruttivo e, in qualche misura, ci aiuta a guardarci dentro e a scavare in noi stessi. Che in fondo significa anche costruire per il nostro futuro di uomini liberi.
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Sognando un carcere “diverso”
di Giuliano Cagnin
Sono quasi quattro anni che sono in carcere e la detenzione, oltre ad essere un’esperienza negativa, è anche contraddittoria perché non è con la repressione che si risolvono i problemi. Infatti più ci entri e meno capisci, quanti dubbi ti sorgono di fronte all’intensità del dolore emanato da questo luogo di pena.
Dopo tutti i cancelli, metal detector, chiavi, divise, disciplina, severità, regole, ritmi lenti, sguardi freddi senza espressioni e più di qualche volta ingiustizie, gratuite, devi ubbidire. Alla fine ti trovi davanti al tuo ultimo cancello, una grossa porta che alla sera ti viene chiusa ed entri infine in una cella nella quale ti devi rassegnare ed adattare. Nel bene o nel male, lì devi stare, con l’unica speranza di trovare qualche detenuto che ti consenta di trascorrere le ore in buona compagnia.
Certi giorni sono duri, e sopporti dolore e disperazione che ti è impossibile accettare. Ti chiedi se veramente sei in un mondo progredito o se sei regredito all’età della pietra? Impossibile dimenticare questa grande sofferenza che devi per forza affrontare.
Ma c’è veramente la volontà di cambiare le cose ... e ... dare alle carceri una funzione rieducativa invece che punitiva?
C’è la volontà di trasformare questi luoghi di detenzione in luoghi in cui il detenuto impari a riappropriarsi della sua dignità di essere umano? Le carceri sono incredibilmente tutte sovraffollate, e la possibilità di lavorare è limitata a qualcuno più fortunato.
Mi sono trovato spesso davanti alla sofferenza di tanti uomini che avevano sbagliato e che sono incappati in carcere, per cause o politiche o per errori burocratici della giustizia, ma che hanno conservato ricchezza interiore, volontà di riscattarsi e riprendersi, ma alla fine ognuno si accorge che resta solo un pugno di fango.
Dietro le sbarre, al contrario di quello che si può pensare, ci sono uomini che conservano integra la loro dignità di esseri viventi, che hanno il sacrosanto diritto di ricostruirsi un futuro, di ricominciare un’ esistenza nella legalità e nel rispetto degli altri.
lo penso che si debba consentire al detenuto di lavorare, di formarsi anche dal punto di vista umano, perché questo lo può aiutare a fare progetti anche per il “dopo carcere”. E’ un progetto di crescita, come un ponte aperto verso la libera società; altrimenti sarà una sconfitta per tutta la comunità civile, la “società casi detta normale”.
Pensateci cari i nostri governanti che nelle nostre case abbiamo bisogno di pane anche noi, abbiamo figli con le stesse esigenze dei vostri e nelle nostre vene scorre il sangue come nelle vostre, cosa dobbiamo diventare noi: Mostri? Gli errori li abbiamo fatti tutti assieme, forse non è la verità?
Siamo nel duemila e due e all’ultimo posto dei problemi sociali troviamo ancora una volta: carceri e giustizia!
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Emarginazione = indifferenza
di Giulia Fedrigo
E’ arrivato l’inverno e i cosiddetti “barboni” cominciano a morire come mosche. Muoiono di freddo! Nonostante questa società sia chiamata civile e moderna. Forse che civile e moderna sono sinonimi di attenzione sociale? Non sembra dalle notizie che ci pervengono dai notiziari televisivi e da ciò che si può leggere su un giornale.
Ma forse la popolazione detenuta, di questo non ha una percezione reale o per lo meno questo si pensa! Si può pensare! Molti soggetti “ristretti” probabilmente si sono trovati anche a vivere in strada.
Ebbene, per noi sentire che qualcuno muore in condizioni di “oltre” che precaria vivibilità, fa un certo effetto!
Com’è possibile che nella cosiddetta società civile non si possa superare il banale problema come il dare un tetto a chi sfortunatamente per mille motivi può ritrovarsi a vivere in strada?
Vengono spesi miliardi ogni giorno per mandare nei Paesi coinvolti nella guerra i nostri soldati, e non si riesce a trovare una struttura dove permettere di passare le notti a persone che non hanno una collocazione normale ... che spesso sono senza documenti e senza riferimenti cui appoggiarsi, come fossero tanti nessuno! Già ...
Il Governo attuale ha basato la sua campagna elettorale anche su una forte considerazione della famiglia ... ma chi non ce l’ha? Ci definiamo anche cattolici... ma come al solito, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare!... I comuni di molte nostre città hanno strutture in disuso, cascinali abbandonati, dunque non sarebbe un problema di collocazione, il vero problema risiede unicamente nel voler fare realmente qualcosa!
Senza analisi psicologiche particolari si può facilmente capire che comunque queste persone emarginate non sono altro che parte di questa società considerata civile e moderna, ma che purtroppo come suo obiettivo non ha che il profitto, la rincorsa all’avere o possedere beni materiali e dove l’apparire conta di più dell’essere!
Una sola citazione, non ricordo l’autore, basterebbe per rendere chiaro tutto ciò che si potrebbe ancora scrivere su questo argomento:
«Mostrami un uomo la cui vita è andata male e ti dimostrerò che è solo un caso se al posto suo non ci sei tu!».
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Voli di dentro
(poesie e quant’altro)
ESSERE
(voce del verbo “ci voglio credere”)
Avulso da tutto questo
che ha invaso, devastato
ogni sogno di libertà.
Vivo in me, per me,
la mia solitudine e
giorno per giorno
sono scontento annullato
e, eccomi ritto sul baratro
di miei vecchi ricordi,
inevitabilmente penso
a quello che non ho,
che rivorrei avere
... sfido quel baratro.
Torno a camminare
per scrivere ancora,
oltre ogni limite
la mia nuova storia,
di invisibile futuro... forse,
ma colma di sogni
come avessi ancora
un bellissimo domani.
Ferdinando Cantini
C’E’ UN’ORA D’ARIA
Dove è morto l’arcobaleno,
lì non volano più le rondini,
ma è sbocciata un ‘ora d’aria
dove si raccolgono ombre d’uomo
ognuna marchiata da una storia.
Dove è morto l’arcobaleno
si sono spente le voci di un bimbo
che non si era accorto ancora
di essersi vestito con panni d’uomo
così anch’esso, oggi è diventato storia.
Storia che non è di lieto fine,
perché è morto l’arcobaleno,
perché si è spenta la voce di un bimbo,
perché un’ombra d’uomo
è sfiorita in un’ora d’aria.
Ferdinando Cantini
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Assemblea con gli studenti
di Ferdinando Cantini e Giulia Fedrigo
Il 17 dicembre 2001, all’interno della casa circondariale di Rovigo c’è stato un incontro con gli studenti di un liceo di Rovigo. Gli studenti erano accompagnati dai loro insegnanti. Presenti all’incontro c’erano: il direttore, l’educatrice, la psicologa, personale della polizia penitenziaria, e noi detenuti della redazione del giornale. Il tema di fondo su cui avrebbe dovuto permeare la discussione era “legalità e giustizia in carcere”, ma vagamente si è invece addentrato in altre problematiche tipo la deterrenza che può avere la pena scontata in carcere. Dobbiamo dire che da ambo le parti c’era abbastanza impreparazione e l’incontro, tranne alcuni piccoli flash, è stato deludente e privo spessore. Il problema non è stato tanto il cosa dire, quanto la mancanza di una preparazione a monte sui temi della discussione. Infatti gli studenti sono risultati un po’ smarriti, come se non avessero ben chiaro cosa in realtà volessero chiedere e noi detenuti siamo risultati mal assortiti, non avendo un vasto arco di esperienze da raccontare sul tema della discussione.
Ho visto o peggio, udito, una sequela di racconti personali che ritengo poco utili, se non deleteri, per chi stava ascoltando, ma sicuramente erano racconti fuori tema.
Inoltre ci sono state imprecazioni e qualche bestemmia sfuggita, quando l’animosità si è spostata sulla deterrenza della pena e del carcere.
Sorprende che sull’inefficienza della pena come deterrente, gli studenti avessero idee e convinzioni più logiche di molti noi detenuti. Già, davano l’impressione di aver ben saldo il concetto che, se il carcere fosse un deterrente sociale, non risulterebbe così affollato... ma molti detenuti sono usi ad esprimersi in concetti non propri, per ragioni di sintesi e di benefici, e una conferenza può anche servire da pulpito, per far sentire a chi di dovere che certe idee sono entrate in zucca.
A questo punto viene da chiedersi: “per caso siamo anche per la pena di morte?”. Considerata dalla «civiltà» americana, ma non solo, come miglior deterrente ai reati di omicidio, stupro, ecc., ma pare che non siano risultati validi come esempio agli altri.
Mai dire mai, tutto può essere anche che dei detenuti inneggino per la «pena di morte» come buon deterrente da proporre.
Sono mosche bianche che non ho avuto mai il piacere d’incontrare. Questo porta a pensare che il carcere e la pena, così come sono concepiti ed attuati, non sono un deterrente che agisce sulla recidiva del riproporsi in azioni delinquenziali.
Semmai sono un deterrente inverso e agiscono sulla volontà di cambiare in positivo, checché se ne dica nei discorsi pilotati verso le orecchie di chi può elargire benefici o misure alternative.
Il vittimismo sociale non è mai né edificante, né costruttivo e non si comprende il motivo per cui sia sempre ricercato nei detenuti, sentirlo esprimere nel dibattito con convinzione.
Ci portava a reagire con aggressività verbale che nasce in convinzioni interiori e allo stesso momento porta a porci domande dov’ero? ... cosa stavo dicendo? ... cosa si cercava di dire al fine di discutere?
Verso la fine dell’incontro qualcosa di positivo è uscito, come la proposta di organizzare un nuovo incontro, ma stavolta con un questionario in mano e parlare di come si vive in carcere ed altre cose che possono interessare agli studenti che sembravano più coinvolti sul piano umano, quali possono essere le nostre potenzialità, capacità di interagire con loro.
Noi detenuti condividiamo che ci sia la possibilità di incontrare nuovamente gli studenti, magari con un minimo di migliorie nell’organizzare il tutto.
Siamo convinti che ciò permetterebbe un arricchimento del bagaglio personale dei due gruppi e far avere del carcere cittadino una immagine costruttiva, di valori sociali che difficilmente può recuperare nelle situazioni di normale quotidianità.
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Ferie dei detenuti
(Nuovo orientamento post sentenza n. 158 della Corte Costituzionale)
La Corte Costituzionale ha evidenziato che la restrizione della libertà personale non comporta assolutamente una diminuita capacità di fronte alla discrezionalità dell’autorità preposta alla esecuzione della pena. L’esecuzione della pena e la rieducazione che ne è finalità, nel rispetto delle irrinunciabili esigenze di ordine e disciplina, non possono mai consistere in trattamenti penitenziari che comportino condizioni incompatibili col riconoscimento della soggettività di quanti si trovano nella restrizione della loro Libertà.
Il riposo annuale integra appunto una di quelle posizioni soggettive.
La garanzia del riposo annuale retribuito, è imposta in ogni rapporto di Lavoro subordinato per precisa volontà del Costituente e non consente deroghe e va’ perciò assicurata ad ogni Lavoratore senza distinzione di sorta (sent. N°189 del 1989), dunque anche al detenuto, sia pure con differenziazione di modalità.
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Quando è lo Stato a non rispettare la legge
di Ferdinando Cantini
Ogni legge dello Stato esercita il suo potere finché non viene abrogata. Il potere di abrogare le leggi è riconosciuto al popolo, mediante referendum, e alla Corte Costituzionale, oltre che, naturalmente esiste il fatto che l’approvazione di una nuova legge può completamente cambiare la precedente e di fatto abrogarla.
Il lavoro dei detenuti, regolamentato dall’art. 20 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (ordinamento penitenziario), è stato oggetto di esame della Corte Costituzionale nella seduta del 10 maggio 2001. In quella sede è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del 16° comma dell’art. 20 della predetta legge 354/75, nella parte in cui non riconosce il diritto al riposo annuale retribuito a ogni detenuto che presti la propria attività lavorativa alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (sentenza n. 158).
In altre e più semplici parole, la Corte Costituzionale ha convenuto che al detenuto lavoratore spettino le ferie! Questo riconoscimento, disposto dal massimo organo dello Stato in materia di legittimità delle leggi vigenti, come minimo avrebbe dovuto sconvolgere la funzionalità del sistema preesistente e, preso atto che il diritto alle ferie retribuite al detenuto lavoratore è stato riconosciuto nella sua inalienabilità più totale, si sarebbero dovuti attivare tutti quelli apparati dello Stato a cui è demandato il compito di attuare e organizzare l’applicabilità di ogni legge in materia di lavoro. Invece nessuna eco si è levata e, questa sentenza, è passata nella più totale indifferenza di tutti. Nella stragrande maggioranza dei casi, nemmeno i detenuti lavoratori sono a conoscenza che le ferie annuali sono oramai un diritto riconosciuto, se pur ancora inapplicato causa l’inerzia di chi dovrebbe ma non fa. Una domanda che può nascere spontanea in un detenuto può essere: “Quando è lo Stato a non rispettare le leggi la sanzione quale potrebbe essere?”. Per par condicio sarebbero “orizzonti ristretti”, non solo per noi.
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Riassaporare la libertà
di Annalù Riva
Dunque, come iniziare a raccontare questa mia esperienza? Sono detenuta in questo istituto penitenziario da due anni e sei mesi, tanti e nello stesso tempo pochi se guardo al mio fine pena: 2005.
Comunque, tenendo sempre duro, anche nei giorni più brutti e cercando di fare sempre qualcosa per affrontare al meglio la mia detenzione ho avuto la possibilità di beneficiare del lavoro esterno attraverso l’art. 21. Infatti è una possibilità di legge per alimentare il reinserimento attraverso il lavoro, si esce al mattino e si rientro in carcere alla sera.
Io esco alle 7,30 del mattino, raggiungo a piedi la sede della cooperativa e da lì, con il pulmino guidato dal responsabile della cooperativa stessa, raggiungo il posto di lavoro situato in un paesino fuori Rovigo. Alla sera rifaccio all’inverso il tragitto mattutino e rientro per le ore 18,30.
Premetto di essere la prima donna che usufruisce di questa opportunità, mentre nella sezione maschile questo avviene da diversi anni, e questo per me è motivo di orgoglio e spero che nel tempo altre ragazze possano avere la mia stessa possibilità.
Questa esperienza è iniziata il 21 dicembre scorso, una data per me assai importante, da ricordare! Quel mattino, quando ho varcato il portone del carcere, la prima cosa che ho fatto istintivamente è stata di respirare a pieni polmoni un’aria quasi più pulita, più leggera di quella che si respira tra queste mura. Poi ho camminato “da sola” per la strada come una qualsiasi altra persona. Mi sono soffermata a guardare le vetrine dei negozi come non facevo da tempo. Ho visto la gente che si preparava alle festività natalizie nella vita che di fuori continua, non come di dentro che tutto si ferma.
E’ stata una bella sensazione, dentro di me ho provato qualcosa che non so neppure spiegare. Mi è parso come se non fossi mai stata in carcere, non ho avuto paura di ritrovarmi spaesata, di essere impacciata tra la gente, tutto è stato normale. Allo stesso tempo consapevole che alla sera dovevo rientrare in carcere, ma le ore da trascorrere fuori mi fanno scordare il posto dove mi trovo. Tutto questo avviene perché l’ambiente lavorativo e le persone che ne fanno parte mi hanno subito accolta bene. Non si sono fatti pregiudizi nei miei confronti sapendo che arrivavo dal carcere, siamo subito andati d’accordo.
Lavoriamo, ma per me la cosa più importante è che in tutto questo tempo parliamo, ridiamo, scherziamo e stiamo a tavola tutti assieme per pranzare: c’è una bella atmosfera. Le ore volano ed io posso dire di essere felicissima di questa esperienza, per me più che positiva e spero proprio che altre ragazze possano provare quanto è in questo momento riservato a me.
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PROSPETTIVA ESSE
Pensiero rivolto a chi è ragionevole ed umile, fatto senza arroganza, presunzione e vanità.
Hai udito una persona ragionevole e buona, perfetta e santa, se ti senti chiamato dallo spirito “ascoltala” e cerca di essere anche tu santo con tutta la forza del tuo cuore e della tua coscienza.
Se però per “umanità” e debolezza non riesci ad esserlo, cerca allora la perfezione nel tuo cuore e nella tua anima. Se ancora non riuscirai ad essere perfetto a causa della tua vanità, nella tua vita cerca almeno di essere buono nel tuo cuore e in te stesso.
Se tuttavia non riuscirai ad essere buono a causa delle “insidie” maligne, cerca almeno di essere ragionevole con le tutte le tue forze.
Se, infine, non riuscirai ad essere santo, ne perfetto, ne buono, ne ragionevole, a causa del peso dei tuoi peccati, allora cerca di portare questo peso di fronte a Dio, che amalgama ingrati e cattivi, e allora inizierai a comprendere cosa sia ragionevole, imparerai ciò che è buono, lentamente aspirerai ad essere perfetto e, in fondo, comincerai ad essere bravo.
Se farai tutto questo ogni giorno, con tutta la tua coscienza, con tutto il tuo cuore e con tutta la tua buona volontà allora, fratello e sorella, non sari più lontano da me e vicino al regno di Dio.
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