«Prospettiva Esse – 2002 n. 3»
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L’amarezza di non essere stato d'aiuto
di Dino Previato
Entrato in carcere, una delle prime persone conosciute, era un vicino di cella. Abbastanza strano per il modo con cui curava la sua persona, ma anticonformista non solo nelle parole ma anche nell’atteggiamento. Capelli lunghi, con la parlata facile, battuta sempre pronta, ma sempre sorridente.
Ebbe, in quel momento la capacità di farmi sorridere, sia per le espressioni verbali per la verità un po’ colorite, ma anche per il suo atteggiamento davanti alla “galera”. Espressione anche di un modo di vivere e di credere nella vita. Ebbi l’impressione che a suo modo fosse unico e solitario, cui non mancava lo spirito e con un’esperienza particolare di vissuto da trasmettere. Forse la sua vita non era stata idilliaca, ma le sue scelte mi sembravano convinte.
Quanto diversa è sembrata la persona che vidi all’esterno, quando fui ammesso all’art. 21 e lo incontravo sulla strada del ritorno in carcere. Trasandato nel vestire, barba lunga. Si era lasciato crescere un pizzetto che lo tratteggiava e lo caratterizzava in maniera straordinaria. Ti chiedeva due euro per andare a Papozze, la sua terra d’origine, per acquistare il biglietto dell’autobus perché gli era stato notificato il “foglio di via”, ma tu capivi che servivano a lui per vivere o per bere. Molto fragile ed insicuro quasi quanto si sentiva protetto all’interno del carcere. Recuperava l’alcool che per i dieci mesi della sua permanenza nella casa circondariale non aveva mai assaggiato. Beveva solo latte e acqua.
Nella sua vita all’esterno era diventato una figura caratteristica, simbolo, almeno per chi lo conosceva, di un modo di vivere che ci pareggiava con le grandi città. Era andato agli onori della cronaca senza aver disturbato qualcuno. Nessuno sapeva dove dormiva, ma intuivi, quando lo incontravi, che aveva passato la notte su una panchina. Tutti i suoi averi erano raccolti in una borsa che portava con sé a tracolla, quando faceva il giro della città cercando qualcuno che gli allungasse un piatto di pasta o il denaro per le sigarette e per bere. Qualche volta entrava in un supermercato e si prendeva quel tanto per vivere quella sua strana giornata e per questo è andato agli onori della cronaca.
Si avvicinava l’inverno, e fra noi che nel frattempo lo incontravamo, ci si chiedeva cosa ne sarebbe stato di lui, sarebbe ritornato in carcere? L’avevano liberato perché aveva scontato un periodo di detenzione maggiore rispetto alla pena comminata. Sarebbe entrato in una comunità per curarsi e sottrarsi all’alcoolismo? Interrogativi senza risposta.
Lo trovai una sera sulla porta della chiesa di S. Domenico e mi raccontò che qualcuno gli aveva, perfino, rubato le scarpe mentre dormiva. Stranezze della vita, c’era qualcuno che stava vivendo una situazione peggiore della sua.
Quanti di noi che l’avevano conosciuto, meglio dire gli avevano parlato assieme, si sono posti il problema di questo “personaggio”, che forse avrà anche cercato un lavoro trovando tutte le porte chiuse perché si dichiarava di essere stato un detenuto? Quanti di noi si sono tranquillizzati la coscienza, affermando che si trattava di una sua scelta di vita. Aveva perso casa, lasciato i suoi cari, aveva rubato per vivere sentendosi defraudato dalla società che non capiva il suo modo di vivere.
La sua solitudine, la sua vita disgraziata è andato a chiuderla sotto un ponte dalle sue parti. Stranezze della vita, lì era nato, lì aveva passato i suoi anni, lì ritrovava un amico Sindaco che l’ha aiutato sino a che si lasciava aiutare, e lì ha trovato il riposo alle sue ansie, alle sue insicurezze ed alle sue strane certezze e posto fine alla sua vita d’anima persa.
Ho ritenuto opportuno ricordarlo, non tanto per tacitare la mia coscienza, nemmeno per illustrare la vita di un santo, ma solamente perché era uno come noi che, pur nel suo modo incoerente di esprimersi e di vivere, ha voluto far capire quanto sia preziosa la vita e come ognuno debba spenderla per migliorare se stesso.
Voleva per noi l’antitesi della sua vita. Era consapevole che in una società consumistica come la nostra sarebbe stato difficile. La sua fragilità la esprimeva contro uomini in divisa, forse colpevoli di rappresentare un ordine costituito che lui rifiutava e che tutto avevano per emarginarlo e soprattutto per colpevolizzarlo. Almeno questo era il “suo” modo di vedere le vicende della sua vita.
Sono state scelte sue, ma quanti di noi si sono adoperati per educarlo e riportarlo nell’alveo normale della vita sociale? Tutti colpevoli e tutti assolti!
Va in pace “Carluccio”, e grazie perché con la tua triste esperienza di vita ed a modo tuo, costretto o no dai fatti della tua esperienza, mi hai fatto capire che la tua scelta di vita non è un esempio da seguire né da additare.
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Magistratura di sorveglianza
di Ferdinando Cantini
Pianificare la vita carceraria del detenuto e inserirvi un programma a lungo o medio termine che consenta l’espiazione della pena ed il recupero sociale dello stesso è un processo sociale che poche volte ha inizio e quasi mai si conclude. Risolvere questo problema equivale a risolvere la disastrosa situazione delle carceri oltre che, consentirebbe una parvenza di evoluzione dei ceti sociali più disagiati o emarginati dal contesto sociale.
Pianificazione e programmazione però sono assiomi che richiedono chiarezze, sia di idee che di volontà e sono l’esatto opposto di quanto oggi viene attuato in forza di leggi e regolamenti spesso in costante attrito tra loro. Mi piace pensare alla possibilità di affidare l’incarico di programmare la vivibilità di una trafficata città ad un capacissimo progettista di autoscontri, perché è un nonsenso cinicamente comico che dall’assurdo ricava la sua comicità... Sulla programmazione della realtà carceraria futura si sta agendo purtroppo con questo cinismo e se il fine prefissato non è la comicità, “non ci resta che piangere” che non sarà la riedizione di un rinomato film, ma la cruda realtà che noi detenuti stiamo vivendo in questo momento.
In questo contesto di assurdi ed inadeguatezze opera la Magistratura di Sorveglianza la quale riesce unicamente ad agire sul recluso e non, come sarebbe auspicabile, pianificando e programmando affinché il sistema penitenziario, il tessuto sociale ed il detenuto interagiscano tra loro in un processo edificativo indirizzato alla risoluzione, seppur parziale, dell’esecuzione penale e del recupero del reo.
Non si possono imputare le storture di un sistema a chi opera nel sistema, questo è ovvio! Però è lecito osservare come altra branchia della Magistratura, la Magistratura inquirente, sia solita ad alzare i toni della voce per esternare il proprio disappunto se dal suo insindacabile interno ritiene di non essere sufficientemente tutelata e attrezzata di leggi idonee alle necessità con cui operare. La Magistratura di Sorveglianza invece sembra refrattaria a queste iniziative e in mancanza di leggi chiare e di condottieri rappresentativi, sono anni che la situazione nelle carceri ristagna e non lascia trasparire possibilità di risoluzioni imminenti.
Fino agli anni '90 questo incoerente pressappochismo nella pianificazione e nella programmazione della vita carceraria e del recupero dell’individuo detenuto non denotava mai i livelli di inefficienza attuali, perché ciclicamente intervenivano le misure di clemenza (amnistie e condoni) che anche se non hanno mai risolto alla radice nessun problema, hanno sempre evitato che le situazioni di inefficienza, latenti nel sistema penale, degenerassero fino a disgregare ogni base su cui poter fare perno per risollevare e risolvere i più impellenti problemi.
Non è propriamente esatto affermare che non ci sono stati Magistrati di Sorveglianza che abbiano saputo, nell’affermazione del loro compito istituzionale lasciare una profonda traccia di coerenza e capacità, un esempio su tutti è senz’altro Alessandro Margara, capace come nessun altro di essere alfiere delle tante storie umane in cerca di riscatto che da sempre albergano nelle carceri.
In questo momento che i detenuti sono in agitazione e che le parti politiche, contrapponendosi tra loro, del carcere ne fanno una tetra cassa di risonanza per le loro scaramucce, a me pare ovvio che dal carcere, tra le molte richieste che siamo soliti avanzare, può partire anche un invito ai politici e ai politicanti di apportarvi misure risolutive.
Questo invito potrebbe essere: “Rispolverate e studiate la dottrina sul carcere di Alessandro Margara che, anche se vi sarà impossibile divenirne discepoli, sicuramente ne uscirete più illuminati e meno dannosi”.
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Entropia di un sistema
giuridico e giudiziario
di Ferdinando Cantini
La Magistratura è sempre foriera di giustizia o in alcuni casi si perde nei personalismi umani e smarrisce la strada del proprio ruolo super partes?
Che la situazione giuridico-giudiziaria nel nostro Paese sia alla disgregazione quasi totale, ormai è evidente a chiunque. La lunghezza dei processi, sia penali che civili, ma non solo! L’uso indiscriminato della custodia cautelare, quando dovrebbe essere rara eccezione, e non solo! L’incapacità di semplificare gli interventi sul crimine in modo inapparente ma risolutivo. E con questo è sufficiente ad instaurare un dubbio: è nelle radici del sistema che qualche meccanismo si è logorato, in modo tale da non reggere il passo delle nuove esigenze e necessità.
Molto più realisticamente è da considerare che la Magistratura, sia essa inquirente o requirente, era chiamata ad una trasformazione. Per questo fine era stato approntato un nuovo codice di procedura. La trasformazione che si era paventato, chiedeva la rivisitazione del vecchio processo di tipo inquisitorio, nel più efficiente di tipo accusatorio.
La nostra Magistratura non ha saputo compiere questa necessaria metamorfosi e tutta e la situazione, è diventata insostenibile.
Essa sta preferendo ricorrere alle trincee, pur di non compiere la metamorfosi che istituzionalmente le è chiesta, ma nelle trincee ci può solo arroccare, non si fa strada, né in avanti né indietro e se si è avuto in dotazione un veloce cambio rapportato per la corsa piana è arduo ora pedalare in salita per recuperare il livello di efficienza. Nel momento culmine della disgregazione si arriva allo sciopero, dichiarato e ostinatamente effettuato nelle trincee. Lo sciopero è un inalienabile diritto di ogni lavoratore, che la Costituzione riconosce, anche ai Magistrati, in quanto dipendenti dello Stato. Il diritto allo sciopero, la Costituzione lo riconosce, a tutti, in astratto, senza entrare mai nel merito dei motivi di rivendicazione. La domanda più pertinente, a questo punto, può essere: la Magistratura può scioperare pro o contro una legge dello Stato? Non dovrebbe essa difendere ogni legge dello Stato e punire ogni prevaricazione della legge?
Un cittadino può contestare una legge, se la ritiene ingiusta o vessatoria dei suoi diritti, la logica ci fa intuire che un Magistrato, non può scioperare contro una legge che invece egli dovrebbe tutelare, a meno che prima non abbia avuto l’autodisciplina sapiente di presentare le proprie dimissioni.
In un clima cosi acceso di scontro politico la Magistratura si dovrebbe unicamente arroccare nelle aule di giustizia e non scendere in piazza/trincea a raccogliere consensi di tipo elettorale, tra la gente, di questo consenso ne abbisognano unicamente i politici.
Non si può, in coerenza, dichiarare di voler difendere l’autonomia della Magistratura e poi cercare il consenso popolare per condizionare la promulgazione di leggi a proprio piacimento. L’autonomia della Magistratura si difende anche non intervenendo come Magistrato a giudicare la legge. Il Magistrato è chiamato unicamente a vigilare che ogni legge (bene giuridico) non sia mai violata, a questo fine al Magistrato è concesso il potere sanzionatorio per reprimere ogni violazione. E’ evidente che l’autonomia della Magistratura si può difendere anche facendo autocritica in casa propria.
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Carcere dentro, carcere fuori
di Luca Smania
Nella normalità dei casi le persone che vengono ristrette in istituti penitenziari perché hanno infranto le regole della società ”civile”. Termini moderni e civili per dire che i delinquenti finiscono in galera.
Almeno una parte di essi, in quanto non tutti coloro che commettono reati vengono presi, alcuni anche se “individuati” non sono perseguiti: i motivi possono essere tanti e farne l’elenco sarebbe un po’ complicato.
Si possono fare degli esempi: c’è chi commette reati ma non è perseguito perché collaborando con la giustizia è libero di farli impunemente. C’è chi è “intoccabile”, avere le conoscenze giuste nel posto giusto, anche questo può servire. Poi ci sono i reati legalizzati, ma questi possono variare a secondo dei territori, della classe politica e anche da chi li commette.
Ma allora vogliamo capire un po’ chi sono queste persone, che finisco dietro le sbarre?
Anche qui ci sono delle categorie, comunque in questo caso l’elenco è più breve: c’é chi commette un errore nella propria vita, perché a volte è possibile cadere in cattive tentazioni, avere l’acqua alla gola e magari la disperazione può portare a commettere atti che non ci si rende neppure conto di fare. C’è chi la fa franca per molto tempo, ma poi arriva il momento in cui qualcosa si inceppa e si cade nella rete. C’è chi non si rende conto di quello che fa, questi potremmo chiamarli ammalati ed in teoria in carcere non ci dovrebbero finire (ci sono apposite strutture, solitamente peggiori delle carceri) nelle quali dovrebbero essere destinati, ma non è sempre così. Poi c’è l’ultima categoria: i disperati, uso questo termine e ce ne sarebbero mille altri per definire chi, più che essere dentro in carcere, è il carcere ad essere dentro di loro. I cronici o recidivi come si usa dire. Non sono grossi criminali, ricchi e potenti com’è di solito la figura del criminale, almeno quella che si vede nei film. Sono i micro‑criminali: extracomunitari, tossicodipendenti, barboni, in poche parole "ladri di galline" come si suol dire. Con fedine penali lunghe chilometri, e non sempre a volte c’è solo qualche reato. Ma queste persone tendono a passare gran parte della loro vita tra un carcere e l’altro.
Allora c’è da chiedersi, ma la giustizia tende solo a punire? Non dovrebbe cercare di rieducare, di reinserire nella società “civile”? Mancano i mezzi per farlo? Ci sono ma non vengono usati? No, non è tutto questo! Che la giustizia spesso sia inefficiente non è una novità, che i mezzi spesso non siano utilizzati, almeno nel modo più appropriato, anche. Ma allora cos'è quello che non va? Perché queste persone si ritrovano sempre in questi "club privati", le facce che si vedono in galera sono sempre le stesse? Entrano ed escono anche più volte, sempre per la stessa condanna, in quanto le alternative al carcere ci sono e spesso sono concesse anche per più di una volta, anche se pochi di questa categoria ne usufruisce. D’altronde il carcere non è un deterrente al carcere stesso. Che sia una scelta di vita, quella di non sfruttare le opportunità che vengono concesse, preferire le sbarre alla libertà seppur vincolata da regole strette. Ma allora sono criminali, sono malati mentali, o solamente scemi?
Io questo non lo so! E non sarò sicuramente l’unico, penso che neppure gli addetti ai lavori lo abbiano capito veramente. Una ipotesi vorrei sbilanciarmi a farla: in fondo a nessuno piace stare in carcere, neppure chi ci lavora, ma sono convinto che inconsciamente questo possa diventare un ambiente di protezione, protetti da quella società dalla quale ci si sente odiati così tanto, con tutta la sua ipocrisia. Una specie di campana di vetro dove ci si sente tutti uguali, tutti con gli stessi problemi. Problemi che non sono più debolezze, paure, incomprensioni, ansie.
Questi problemi qui dentro possono diventare punti di forza, se ben mascherati, l’importante è non abbassare mai la guardia, altrimenti qualche mattina il nostro compagno dì cella ci potrebbe trovare appesi con i piedi a penzoloni. Certamente questa è la soluzione più drastica, e fortunatamente neppure la più frequente. Sebbene non manchino le svariate forme di autolesionismo.
Allora questo carcere a cosa serve: al reinserimento? Si, in certi casi anche ma non per l’efficacia dei metodi ma più per la voglia radicale dell’individuo stesso.
Comunque il carcere è sempre e solo un contenitore di tutti quel problemi che la società civile non vuole vedere e tanto meno sentire parlare. E’ una barriera tra chi è considerato per bene e chi invece è un pericolo per la società e, purtroppo, è anche l’ultimo dei problemi. Questo è un circolo vizioso che non ha mai fine.
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Un caro saluto ad Alessandro Margara
di Ferdinando Cantini
Il nostro desiderio sarebbe che in momenti come quello attuale, pieno di iniziative confuse e di disordine nel settore della giustizia, si ricorresse ad attingere da chi ha dato esempi di saggezza, lungimiranza e dedizione.
Margara è annoverato, a pieno titolo, nella pattuglia degli “iconoclasti” di Magistratura Democratica, con tre procedimenti disciplinari alle spalle (fra cui uno nell'89 per le presunte licenze “in eccesso” ai semiliberi di Sollicciano), Margara è stato il magistrato che nei 27 anni di vigenza della legge penitenziaria ha saputo incarnare a tutto tondo il ruolo che il legislatore ha assegnato alla funzione giudiziaria di sorveglianza, senza mai sentire il complesso delle deminutio per una funzione ritenuta spesso di serie B; soprattutto, senza aver paura del carcere e dei carcerati, come ha dimostrato nel corso della famosa rivolta di Porto Azzurro. Ha vissuto intensamente, sempre in prima linea, tutte le fasi storiche del penitenziario italiano: dalla galera della povera gente al carcere di massima sicurezza e del terrore, a quello della speranza, a quello dell’emergenza della criminalità organizzata, al carcere balcanizzato, fino al carcere della globalizzazione.
È stato poi un magistrato coerente intellettualmente, fino alla testardaggine: il che gli ha consentito di privilegiare già dal '75 gli aspetti pratico-operativi delle misure alternativi alla detenzione, e la “gestione” delle stesse, evidenziando i rischi delle procedure giurisdizionalizzate e della burocratizzazione dei riti.
Non c’è dubbio che le scelte professionali di Margara siano state coerenti ad una vocazione giudiziaria orientata in senso sociale, con una volontà di impegno in quei settori dell’ordinamento dove più bruciante è la frizione tra l’ordine costituito e il disordine o lo smarrimento di una umanità debole, marginale o ribelle. Ed ha argomentato sottilmente contro le culture emergenti contenenti rigurgiti di “neoretribuzionismo”.
Una carriera “fulminante” la sua. Il primo e l’unico magistrato di sorveglianza nella storia d’Italia assurto al vertice del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria: solo per un anno, sei mesi e 21 giorni, perché “licenziato” in tronco dall’ex ministro Diliberto. Ha portato nel DAP una miriade di idee e progetti, partecipando all’elaborazione delle leggi sulle alternative alla detenzione e sul lavoro in carcere, sulla incompatibilità col carcere per i malati di Aids e per le detenute madri. Ha emanato il nuovo regolamento di esecuzione ed il decreto di riordino della medicina penitenziaria.
Ma ormai montava il clima della “cattiva politica, di quella che vede la deriva dell’ideale di solidarietà, e dell’attenzione alle varie aree di disagio sociale riassunte nel carcere; la cattiva politica che procede alla rottamazione di quelle idee in cambio di un modello di città, senza barboni e con galere piene di delinquenti di tutte le dimensioni (ma, quando in galera sono tanti, non si sbaglia: la pezzatura largamente prevalente è quella piccola). Ricordare o dimenticare New York ? Non quella ovviamente di Frank Sinatra, ma quella di Rudolph Giuliani“. Ecco che torna il magistrato scomodo e così Margara nel sinistro silenzio è stato accantonato assieme alle sue innovative idee.
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Come si vive oggi rinchiusi
nelle carceri italiane
di Giuliano Cagnin
Vivere rinchiusi nelle carceri oggi è da una parte evidente ma dall'altra altrettanto impossibile. Vivere rinchiusi in una cella in oltre tre persone quando il posto previsto è per una sola non è molto semplice, manca, infatti, oltre allo spazio la possibilità del rispetto della personalità di ognuno. E' da considerare infatti che, oltre all’affollamento, si verifica un raggruppamento di persone che possono avere difficoltà di convivenza. Un esempio che posso fare è la presenza di un detenuto che ha problemi di personalità e non sa, o non vuole capire, cosa vuol dire rispetto per gli altri. Magari giovane, proveniente da un modo di vivere cosiddetto “sballato, che è senza educazione, montato di testa, e non sa il rispetto dove stia di casa. Questi tipi di giovani sono anche laureati, il che presupporrebbe un modo più corretto e costruttivo di porsi, invece è il contrario: perché accade tutto ciò? Vengono inseriti in una cella in cui si è creato un certo affiatamento in un gruppo di persone che ha rispetto ed educazione, creando una buona socializzazione. E così accadono litigi ed incomprensioni, fatalità tutto ciò è successo anche a me. Dopo diversi anni di carcere e di rispetto per tutti, oggi con il sovraffollamento non si riesce più a vivere in modo dignitoso.
Chi si deve rendere conto di tutto questo? Noi detenuti cosa possiamo fare? Nulla, solamente subire. Il Ministro di Giustizia ed i politici non hanno la percezione di quello che succede in carcere? A chi di questa situazione di sovraffolla-mento, che esiste da molti anni, spetta la soluzione? Le autorità penitenziarie e gli operatori di polizia penitenziaria debbono pure loro impazzire perché questa gente perde la testa, fanno il possibile e cercano di supplire e tappare qualche buco, anche se il problema sta diventando sempre più drammatico!
Gli aumenti di suicidi che stanno continuando nel corso di quest’anno, non bastano a far prendere decisioni in merito. Anche i politici hanno avuto i loro guai giudiziari in passato ma, ciononostante, il problema non è stato risolto! A questo punto perché il problema non viene risolto? Siamo tutti eguali oppure non siamo figli dello stesso Dio? Perché queste differenze o noi siamo carne da macello? Tra poco scoppierà il tutto, forse le nostre autorità attendono che questo accada? E' meglio prevenire che buttare benzina sul fuoco.
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Comunicato dei detenuti
I detenuti ristretti in Casa Circondariale comunicano di aver deciso di aderire all’iniziativa pacifica di protesta già in atto in alcune carceri. La dimostrazione pacifica in atto nelle carceri intende portare all’attenzione del Paese molte situazioni di disagio e precarietà che gravano sull’ambiente carcerario. La sensibilizzazione delle opinioni è anche l’intento che noi, detenuti di Rovigo, ci prefiggiamo e ne elenchiamo i principali punti. Sovraffollamento, abuso della custodia cautelare, una mancata pianificazione sulla detenzione dei cittadini stranieri, le scarse concessioni di misure alternative. Anche i problemi e i ritardi della Giustizia influiscono negativamente sulle nostre vite, come vi influiscono i continui tagli di bilancio sulle spese per le carceri. Si pensi che ancora non è sufficientemente operativo il passaggio della sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale, ma soprattutto non si reperiscono i fondi necessari per renderlo operativo.
Allo stato riteniamo che il primo passo per rendere più vivibili le carceri e più funzionante la Giustizia sia quello di operare, al più presto, alcuni provvedimenti in sostanziale modifica di quanto ora vige.
Noi li individuiamo in:
1. Un provvedimento di clemenza generalizzato per sfoltire il numero dei detenuti presenti nelle carceri.
2. La riforma dei codici, penale e di procedura penale.
3. L’aumento della liberazione anticipata da tre a quattro mesi.
4. L’aumento delle concessioni di misure alternative al carcere.
5. Il riordino delle funzioni e della carriera dei Magistrati di Sorveglianza.
6. Espulsione agevolata dei detenuti stranieri che ne facciano richiesta.
7. Una maggiore possibilità di posti di lavoro nell’ambiente carcerario e una maggiore disponibilità di fondi per le iniziative trattamentali del detenuto.
Le nostre pacifiche azioni dimostrative inizieranno fra sette giorni a decorrere da oggi, cioè Lunedì 23 settembre 2002 e si svilupperanno nelle sotto elencate modalità:
Lunedì 23 sett.: Rifiuto del pane che sarà lasciato esposto fuori cella.
Martedì 24 sett.: Rifiuto della prima ora di socialità in saletta (h. 16,30-17,45).
Mercoledì 25 sett.: Battitura di cinque minuti delle gavette all’inizio di ogni ora di colloquio.
Giovedì 26 sett.: Rifiuto del vitto che sarà portato in sezione, ma resterà nel carrello.
Il rappresentante della commissione cucina testimonierà l’accaduto segnalandolo nel verbale. Indicherà eventuali ritiri di cibo da chi non riterrà di aderire alla dimostrazione. Si invita il responsabile sanitario a sovraintendere a questa dimostrazione ed indicare preventivamente chi non ritiene che per motivi di salute non potrà mettere in atto la dimostrazione.
Venerdì 27 sett. : Astensione dal lavoro dei lavoranti.
Sabato 28 sett.: Si ripeterà quanto attuato mercoledì.
Domenica 29 sett.: Rifiuto della prima ora di socialità in saletta (16,30-17,45).
Inoltre dal 23 settembre fino al 23 ottobre ci auto sospendiamo dalle attività trattamentali e dai colloqui con gli operatori, pur affermando di mantenere costante il processo evolutivo nel nostro percorso di reinserimento e mantenendo costante un comportamento consono e rispettoso del regolamento.
Si invita la Direzione a rendere nota ai quotidiani cittadini di quanto nella nostra pacifica protesta. Ci è grata la solidarietà del personale in servizio di custodia che con noi condivide le problematiche e le disfunzioni dell’ambiente carcerario.
I sottofirmati detenuti con la sottoscrizione della presente si impegnano a rispettare un comportamento corretto e non eccedere a quanto dichiarato intendersi effettuare nella dimostrazione pacifica.
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Autunno caldo nelle previsioni
di Ferdinando Cantini
Risiamo alle solite, la giustizia e i suoi annosi problemi mai risolti, nuovamente hanno formato un grosso nodo che difficilmente riuscirà a passare attraverso il pettine del buon senso e della logica. Le forze politiche già prima di congedarsi per la pausa estiva avevano preannun-ciato un nodo caldo sui problemi “Giustizia e carceri”. Difficile riuscire a non voler credere che l’autunno sarà caldo su ogni fronte, invece sarà arduo riuscire a credere che questo caldo gioverà a qualcuno o a qualcosa. Impossibile sarà per chiunque sperare che con il caldo o con il freddo i problemi saranno risolti.
Siamo il paese che nel mondo è all’avanguardia nel settore delle lenti, ma ahimè! Di essere obiettivi non ci riesce mai una volta. Abbiamo nei nostri cromosomi l’ereditarietà di Guelfi e Ghibellini, perciò la “partigianeria” è il nostro forte. Le cose si fanno o si disfano per qualcuno oppure contro qualcuno.
Sia per le carceri che per la giustizia la realtà ci indica che le cose non funzionano come sarebbe logico attendersi.
È assurdo trovarsi in carcere è constatare che le "menti eccelse" che dovrebbero politicamente dipanare la matassa, si bloccano per accapigliarsi in diatribe che potrebbero benissimo controbilanciarsi alla discussione sul sesso degli angeli.
Giustizia: si rimprovera al capo del Governo di difendere personali interessi nel voler dare ad ogni costo una corsia preferenziale di celerità alla legge sul legittimo sospetto. Di contro e senz’altro con altrettanto validi motivi di parte, si schierano la sinistra politica del Paese e gran parte della Magistratura, “rubizza” da ataviche rabbie non ancora sfogate, oltre che per personali frequentazioni politiche.
Dov’è rintanato il tanto decantato “Garantismo” di cui la sinistra si dichiara portatrice... non vorrà lasciar pensare che essa vuole negare un istituto giuridico di garanzia che esisteva già ai tempi del codice Rocco-Zanardelli e che portava anche la firma di Benito Mussolini?
...E la magistratura a quale o per quale fine si accalora cosi tanto?
La remissione di un processo ad altro giudice, che verrà senz’altro valutata e decisa da altri giudici, non dovrebbe forse essere un’istanza legittima per un imputato il quale può dimostrare fondati elementi a legittimare il sospetto di una difficile terzietà o imparzialità di una Corte giudicante? Insistendo con questi toni è legittimo il sospetto che alcuni giudici si reputino gli unici capaci di arrivare ad una già determinata sentenza... però l’amministrazione della giustizia richiama il giudice a ben altri impegni e valutazioni.
Carceri: siamo nel terzo millennio, questo è indiscutibile, ma non nel pianeta carcere... si, perché non si notano le innovazioni della nuova era, tutto è fermo al 1975 o se si vuole al 1986.Raffazzonature, leggi, leggine e tutto inevitabilmente regredisce peggiorando, così oggi siamo al punto che l’unica cosa che vi abbonda all’interno delle mura è il numero dei detenuti e la sofferenza degli stessi che si somma all’insicurezza di chi vi opera in situazioni di riconosciuta precarietà.
Si ritorna a ipotizzare nuove discussioni sull’opportunità di ricorrere o no a provvedimenti di clemenza, più o meno generalizzati, ma a quanto pare, tolti estemporanei spunti di politici che si siedono negli scranni di ambedue gli schieramenti, nessuno ha idee chiare o risolutrici da poter far sperare nella risoluzione o in cospicui miglioramenti nelle carceri, sia per i detenuti che per chi vi opera.
Il vero ed unico problema, sia che si affronti la discussione sulle carceri che sulla giustizia è che bisogna finirla di rattoppare strutture di leggi che ormai sono destinate a collassare e a decadere. È ora di fermarsi a chiederci cosa realmente si vuole realmente realizzare, e dopo cronometrare un momento “zero” da cui partire. Remando tutti in un’unica direzione seppur con posizioni diverse costi quello che costi.
Il principio di Nerone di bruciare la puzzolente Roma per costruirne una più bella, forse è stato meno assurdo delle molte proposte risolutrici che oggi riusciamo ad ascoltare, ma nessuno ha mai negato che ci possono essere quantità di genuina saggezza nei folli.
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L’unione ed il crederci è garanzia di vittoria
di Dino Previato
Nella mia esperienza di detenuto debbo provare anche quella dello “sciopero”, una manifestazione di “lotta” di cui non riesco a capire la portata. Nella mia vita di “lavoratore dipendente, colletto bianco o no, ho sempre contrastato tali manifestazioni, che consideravo violente anche quando c’era di mezzo il mio posto di lavoro. La dialettica ed il confronto le ritenevo armi sufficienti ed indispensabili per risolvere le questioni.
Oggi non c’è una rivendicazione salariale sul tappeto, ma di reclamare scelte che toccano direttamente il mio futuro e la mia famiglia e le condizioni di vita all’interno della cinta muraria del carcere.
Non potevo sottrarmi alla partecipazione a questa manifestazione, anche se il modo con cui è stata gestita non aveva avuto la mia adesione. Difficoltà di incontro non hanno consentito un libero dibattito in materia e forse minato la capacità di incidere sulla coscienza della comunità come avrebbe dovuto.
L’autorità costituita non è stata sensibilizzata nel modo dovuto o forse trattasi di un “campo d’azione” lasciato ad altri, certo è che nulla si è fatto per questo ed era la parte più importante.
Ognuno di noi ha maturato le sue idee, secondo la conoscenza che possiede della situazione esterna. Siamo nuovamente alle prese con il problema dello sfoltimento delle patrie galere, e ci chiediamo quali risultati si sono ottenuti con l’azione di sciopero effettuata. Non sono in grado di valutarlo, la scena nazionale dove si deve decidere è talmente lontana che non fa ben sperare, anzi è facile intuire che tutto finirà in una bolla di sapone, non abbiamo nomi altisonanti da proteggere.
L’errore fondamentale, ed è una mia valutazione, è stato quello di indire uno sciopero senza prima tentare di far uscire le ragioni e divulgarle in maniera che prefigurassero un problema per la cittadinanza.
Proviamo a pensare alla nostra realtà di provincia. Quanti si sono accorti dello sciopero che si stava svolgendo all’interno della Casa Circondariale. Forse solo coloro che hanno sentito il rumoreggiare dei piatti battuti contro le sbarre della cella e che abitano, per loro sfortuna, vicino all'istituto penitenziario, ma non la gran parte della comunità.
Pochi sono stati raggiunti dall’articolo apparso sulla stampa, e siamo stati fortunati se ce la siamo cavata con il classico: ”Che cosa vogliono questi r…”. In miglior modo non potevamo essere liquidati. Chi vive all’esterno gran parte della sua giornata l’ha percepito in tutta la sua interezza.
Non per dare lezioni a nessuno, ma credo che tanto si sia sbagliato. Ed ora cerchiamo di fare una prima ricognizione dei risultati. Raccogliamo, una proposta di legge, delle iniziative di singoli onorevoli, concretamente trattasi di un lume di speranza, ma null’altro di concreto. Che cosa succederà quando il polverone sollevato si sarà diffuso sul terreno? Voglio essere un cattivo profeta, perché spero che tutto questo sia servito, ma proveremo una nuova ma più amara delusione.
Occorre a tamburo battente programmare un’ulteriore azione di sciopero, con l’obiettivo di mostrare la vita in carcere nelle attuali condizioni e l’efficacia delle azioni o programmi rieducativi. Far toccare con mano cosa significa il sovraffollamento e la convivenza fra diverse etnie o nazionalità, ed evidenziare il fallimento, per inadeguatezza delle strutture e per inefficacia in questa situazione di tutte le più rilevanti buone volontà messe in atto.
La nostra azione quindi deve essere impostata su due piani, uno interno per dar forza e solidarietà alle voci esterne che si pronunciano a favore di modalità diverse per vivere il carcere ed una seconda interna atta ad evidenziare le maggiori e rilevanti carenze del sistema penitenziale. In altri termini organizziamo incontri con deputati, autorità locali, personalità di richiamo, per assicurarci una presenza “continua” sugli organi di comunicazione. Il fine giustifica i mezzi, dobbiamo portare le nostre problematiche all’esterno del carcere evidenziando le nostre ragioni e le nostre problematiche.
Sembra un’azione difficile, ma ritengo che credendoci, qualche risultato si ottiene.
Proviamoci assieme, tutti d’accordo, uomini della sezione, detenuti ammessi al lavoro esterno, semiliberi, lavoranti, etc. Non far l’errore di pensare che il numero faccia la forza, perché è ampiamente dimostrato che la forza delle idee, la capacità di persuasione e l’efficacia della comunicazione, dà sempre dei risultati positivi. Nessuno deve attribuirsi il diritto di una rappresentanza complessiva solo perché è il più forte o è in grado di manipolare il gruppo più numeroso. Assieme predisponiamo un progetto e poi vediamo di attuarlo. Allora il sorriso ironico scompare anche dagli uomini che più possono darci una mano. Se in ogni città si riesce creare un momento di tensione, trequarti della nostra battaglia è già vinta, il resto lo faranno le stesse autorità che debbono agire in un ambiente ingovernabile.
Ora abbiamo anche altri argomenti da mettere sul piatto della bilancia. La riduzione della popolazione detenuta crea (è brutto questo ragionamento che ci non lascia spazio come persone, ma è l’unico che possiamo effettivamente fare), un notevole risparmio alla spesa pubblica, le minori assunzioni di personale da effettuare, rappresentano un’ulteriore economia che soccorre chi governa. Porre in rilievo le condizioni di carenza della vita carceraria in modo da paventare un’ulteriore aggravio di spesa, ma anche per evitare situazione pericolose, sono armi in nostro possesso per far sì che in questo periodo, che va dalla finanziaria all’aggiornamento del codice penale e la riforma della Giustizia, possiamo trovare più ascolto presso l’opinione pubblica e le autorità preposte.
Quante volte abbiamo letto o sentito che l’esperienza carceraria così com’è vissuta sino ad oggi non è utile a nessuno. Diamo voce a costoro e mostriamoci con azioni ed atti di essere in sintonia con loro. Consci che chi deve decidere, presi come sono dai loro giochi di potere, non hanno saputo ascoltare anche la voce del Papa, durante il Giubileo della giustizia, figuriamoci se oggi ascoltano il rumore della nostre gavette.
Diamoci una mossa e tutti uniti forse troveremo le risposte che ognuno di noi attende e/o che spera di trovare.
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Soluzione anestetico
di Chiara Gabriele
Ci sono vite che passano come un alito di vento. Non si fa a tempo a capire che cosa stiamo vivendo che è già finita.
Non c'è sedia elettrica peggiore di una vita consumata a metà come una candela ad una festa in un parco. Viene una scarica di pioggia, gli ospiti fuggono e tu te ne rimani li solo, spento. Eppure ne avevi ancora di cera da illuminare la notte, addirittura la più buia, mamma. Ti sei spenta ed io non ti ero accanto. Dio solo sa quanto ho pregato di potermene andare al posto tuo. Ancora sento le parole affaticate al telefono dove mi dici che mi aspetti. Ancora penso che tu lo stia facendo e l’eco delle tue parole riempie la mia testa ogni istante. Sento ancora il tuo profumo, i tuoi rimproveri. Ora mi addormento illudendomi che tu mi sia accanto accarezzandomi i capelli come sempre facevi.
Sì, trentadue anni e ancora mi piaceva farmi coccolare da te.
Ora ne ho trentatrè e sto ancora aspettando i tuoi auguri. Anestetizzata e ovattata da questa struttura carceraria che non mi aiuta a realizzare il fatto che non “sei” più.
I ricordi? Per ora si limitano al nostro ultimo incontro in ospedale, quando fra me e me pensavo che non potevi essere tu quell’esserino distrutto dalla chemioterapia, incosciente a causa della morfina e così piccola e indifesa. Volevo accarezzarti come tu facevi con me e invece ho preferito tornare in carcere. Qui ero al sicuro. Qui non si prova dolore. Qui c’è la medicina giusta: Tranquirit, Laroxyl, o quant’altro. Non è un problema il dolore non vissuto. Non preoccuparti, dicono loro… sì, dico io, giusto il tempo di terminare la condanna e poi potrò piano piano capire cosa è successo.
Mi vedo già catapultata all’esterno verso quel mondo che forse, dico forse, ha già superato tutto.
Sì perché fuori la vita continua, è qui che tutto sembra fermo. Fermo a quel maledetto giorno in cui sono venuti a prendermi ed in fretta e furia ho preparato le mie cose. Ancora non sapevo cosa ti aspettava. Da quel momento in poi hai pensato solo a me ed hai smesso di lottare. Chissà perché le mamme dei carcerati muoiono sempre prima.
Non darmi preoccupazioni mi dicevi… e invece te ne ho date eccome! Sarò forse io la causa del tuo viaggio senza ritorno? Dentro di me penso di sì. Hai riservato tutte le tue energie su una figlia che sicuramente non è un “modello”.
Figlia che però aveva il diritto/dovere di starti accanto anche se per poche ore.
E allora via con le istanze e la “concessione” di vederti quattro ore accompagnata dalla scorta su un bel blindato. Certo, chi se ne frega della figura, ormai sono bollata. Ma c’è un limite, soprattutto di fronte al dolore di una famiglia e alla dignità della stessa.
Corri per un altro permesso e nessuna risposta; corri per un sollecito e nessuna risposta…sentivo che ti stavo già perdendo… corri nuovamente dal comandante che mi dice che non ci sei più ma che ha bisogno di una conferma con telegramma. Ne sono stati fatti due e guarda caso mai arrivati.
Corri per un altro permesso… almeno per il tuo funerale, la risposta è arrivata all’ultimo momento. Forse perché mi ero agitata un pochino con gli agenti? Mah!
Ho fatto tutto come uno zombie. Non ero io e forse nemmeno quello che ho visto era il tuo funerale. Sotto shock, incredula; tuttora questo non è avvenuto dentro la mia testa.
Al rientro ho pensato: persino gli assassini godono di permessi e di porzioni di libertà. La rabbia e l’impotenza di fronte a coloro che ti marchiano e decidono come, dove, quando, quanto e soprattutto con chi.
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Affettività: sogno o utopia
di Giulia Fedrigo
Affettività. Iniziamo a dire che il termine affettività è considerato, dalle persone che non appartengono al contesto carcerario e non conoscono il carcere, come una sorta di privilegio se concede la possibilità di viverla, e direi distorta visto che legano questo termine all’atto sessuale che, se permettete, è tutta un’altra cosa. L’affettività non è solo e per forza sesso. E’ famiglia, figli, amici. Nel contesto carcerario attuale per molti motivi non è presa in considerazione. E pensare che il D.A.P. per concedere un trasferimento in primis contempla e valuta l’avvicinamento familiare, i rapporti affettivi, “l’appagamento” psicologico di avere punti di riferimento affettivi. Una discordanza, oppure una semplice presa in giro, data l’impotenza di un detenuto a controbattere un loro rifiuto? La mancata affettività vissuta per anni porta a squilibri mentali, nei casi più complessi a proprie e vere malattie mentali, in altri una razionalizzazione dell’essere non certo in modo normale, una sublimazione, in altri porta depressione, altri ancora rischiano l’inaffettività. Non è facile e dai ristetti non è percepita e considerata come un’aggiunta di pena inutile. Perché se il “fine” di un condannato è la rieducazione e il reinserimento, non si comprende perché uno dei punti cardini della persona sia reciso di netto durante la detenzione. Da anni si avanza l’idea di creare uno spazio apposito per far sì che un detenuto possa avere questi incontri-rapporti affettivi in un contesto senza controlli visivi e uditivi per un arco di tempo “ragionevole”. Ora è stata realizzata la proposta di legge. Quanto ci vorrà per concretizzarla? Teniamo conto che le carceri sono sovraffollate, che già abbiamo spazi esigui per varie attività. Poi i canoni da seguire, determinati. Non sarebbe più semplice concedere permessi, più lunghi e più frequenti? Questo per una certa area di detenuti e per altri far sì che questa proposta possa essere attuabile nell’arco di tempi, possibilmente “non biblici”? Ho come la sensazione che sia un’altra partita di “fumo” (vedi indulto Giubileo 2000) che ci viene venduta per poi sfociare in un nulla di fatto. Certo l’esperienza per l’atto di clemenza, ha fatto comprendere bene agli “addetti ai lavori” che i detenuti odierni, non sono quelli con cui si aveva a che fare in passato. I tempi sono cambiati anche in carcere. In passato, se mi è concesso, i detenuti erano persone più determinate, con valori completamente diversi, comunque insiti in loro stessi, che oggi come oggi sono un po’ difficili da trovare. Un po’ perché l’ambito carcerario è composto da stranieri che non conoscendo, non per colpa loro, l’evoluzione (se mai si può usare questo termine) carceraria, non sono in grado di avere strumenti per essere capaci di combattere, un po’ perché l’unione che fa la forza, si è persa per strada, per motivi che ritengo inutili elencare a chi conosce questa realtà.....Un po’ perché ci si incastra dentro a sole e uniche parole....mediazioni....paure di non avere i benefici, che poi: dove sono? Con una mano li danno, con l’altra se gli riprendono. Ricatti a cui il detenuto odierno sottostà per avere che cosa? Non si sa...! Ma intanto spera e cosi facendo si trascina avanti la sua pena...che...certo finirà, ma intanto compra illusioni e di questo lo si fa vivere. In fondo è determinante concedere qualcosa (placebi) affinché gli animi rimangono sospesi nel limbo dell’attesa di qualcosa di migliore. Dunque anche per quanto riguarda l’affettività. Sì, la proposta è buona! Ma se ci guardiamo in faccia è realmente possibile attuarla? Ripetendomi: in che tempi? Scusate la mia poca fiducia e incredulità, forse è una sublimazione della mia personale affettività.
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Jessica
di Jessica Goman
Sono stata fermata il 15 giugno di quest’anno, quindi da due mesi sono qui a Rovigo. Quel giorno i Carabinieri sono venuti al campo dove abito; pensavo volessero mandarci via, come altre volte, invece mi hanno chiamata col mio vero nome, Gejrga, dicendomi che avrei dovuto seguirli in caserma in quanto avevo da scontare un anno di condanna per un reato risalente al 1993. Praticamente, avendo proceduto l’Autorità Giudiziaria nei miei confronti in contumacia, sono rimasta sconvolta perché ormai credevo che la cosa fosse chiusa. Inoltre dopo quel “piccolo” reato, non ne avevo più compiuti, praticamente mi ero dedicata ai miei sette bambini: mamma a tempo pieno!
Non dimenticherò mai quel giorno in cui mi hanno portato via. Gli occhi dei miei figli erano pieni di lacrime ed io non riuscivo a dire niente, nemmeno ad abbracciarli.
Il bambino più piccolo si era nascosto dietro la porta della roulotte con il biberon in mano e piangeva. Non ho avuto la possibilità di abbracciarlo poiché dovevo prendere rapidamente lo stretto necessario e seguire gli agenti. Solo la più grande dei miei figli si è resa conto di cosa stesse succedendo; mi è corsa incontro stringendomi forte, implorandomi di non andare via ed io non sapevo veramente come comportarmi; dentro di me ero cosciente che non sarei tornata così presto.
Lo stesso giorno sono arrivata qui a Rovigo; stavo male e mi sembrava di vivere un incubo. Pensavo alle mie creature e chiamavo i loro nomi nella speranza assurda che loro potessero sentirmi. Per tre lunghi giorni non ho fatto altro che piangere; l’unica cosa che sentivo era il rumore assordante delle chiavi che aprivano e chiudevano i cancelli e le voci delle mie compagne che mi consolavano dicendomi che presto avrei potuto rivedere i miei bimbi. Sì, ma quando sarebbe successo? Il tempo sembrava essersi bloccato.
L’unica che in quei momenti è riuscita a darmi sostegno morale è stata Nuscia, una ragazza rumena con la quale dividevo la stanza. Mi è stata vicina in quel momento ed anche nei giorni successivi. Se si può dire così, è stata per me come un punto di riferimento e mi è dispiaciuto infinitamente quando è stata trasferita.
Ho cercato comunque di riprendermi e dopo una lunga attesa, finalmente il 23 Agosto ho rivisto i miei figli. Non è possibile descrivere la gioia che ho provato in quel momento; ho pianto tanto, ma non di fronte a loro. Mi sono sfogata al rientro dal colloquio, ma non sono state lacrime di tristezza bensì di gioia. Ho capito veramente che la mia vita sono loro.
Mi faccio coraggio ogni istante perché sono consapevole che questa esperienza finirà presto e mai più nessuno mi dividerà da loro.
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Sapore di libertà
di Ines Marin
Sono qui da quattordici mesi, quest’anno ho usufruito di due permessi. Il primi è stato a Portaverta dove ho trascorso una bella giornata grazie a Don Vanni.
Il secondo permesso l’ho passato a casa dell’insegnante di italiano che ha avuto la gentilezza di ospitarmi presso di lei per ben due giorni; tutto questo grazie alla disponibilità del direttore dell'istituto ad accogliere la mia richiesta, al Magistrato di Sorveglianza di autorizzarla, gesto questo per me molto importante, e agli agenti che mi hanno seguito dimostrandomi molta fiducia.
Considerato che sono straniera e senza documenti, per me è stata una grande sorpresa; per di più ho saputo che era la prima volta che una detenuta poteva uscire per un permesso così lungo e ospitata a casa di una volontaria. Mi rendo conto che Mariangela (l’insegnante) si è fatta carico di un bel po’ di responsabilità, i rischi che ha corso potevano essere molti ma la sua disponibilità e la sua gentilezza hanno prevalso sulla paura dei “rischi” che poteva correre, ma in ogni caso io mai avrei tradito la sua fiducia.
E’ difficile abbattere il muro del pregiudizio. Mi rendo conto che in occasioni simili, come nei giorni di permesso, qualcuno potrebbe approfittarne ma, pur trattandosi di un assaggio di libertà, sarebbe stupido tradire la fiducia riposta e soprattutto mettere a rischio oltre che se stessi e le persone che ci hanno offerto questa opportunità, anche negare per un nostro sbaglio la possibilità per qualcun altro di usufruire di un tale beneficio.
In quei due giorni ho visitato bellissimi posti, pur rimanendo nel comune di Rovigo: Mariangela mi ha portato alla “Fattoria”, un grandissimo centro commerciale che in Colombia non ho mai visto. Ho poi visitato il museo dei “Quattro fiumi”, ma ciò che mi ha colpito di più è stato l’Osservatorio: mai avevo visto tanta bellezza, guardare le stelle così da vicino mi ha emozionata tantissimo, spero un giorno di poterci ritornare.
Passeggiando per Rovigo non ho potuto fare a meno di confrontarla con la mia città, in Colombia, pur essendo sabato e domenica ho notato poco movimento sia di macchine che di persone. Rovigo è davvero una città molto tranquilla paragonata alle città colombiane dove il traffico è davvero molto intenso. Strano è stato notare che non ci sono cani per strada, nel mio paese non c’è rispetto per i cani che girano tranquillamente per le strade e che spesso muoiono abbandonati.
A parte tutto questo ciò che più mi è rimasto nel cuore è stato a casa di Mariangela sentirmi come in famiglia, una bellissima famiglia che mi ha accolto come se vi appartenessi.
Per due giorni mi sono sentita proprio a casa! Ancora adesso siamo in contatto epistolare e la sento molto vicina. Grazie Mariangela!
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Riflessioni
di Mario D’Amelio
Se mai decidessi di scrivere un libro sulla mia vita, dovrei intitolarlo: percorso inverso. Che è quello di un ragazzo di 25 anni, che si trova in un’auto ferma, con il contachilometri completamente azzerato, ai margini di una via. Quando è partita quest’auto, andava bene e il suo bagaglio era cospicuo, ammirato. E, forse anche invidiato: strada larga, buche evitate, viottoli insidiosi superati, niente segnali ambigui, bivi imboccati senza esitazione. Non è il mio come potrebbe sembrare, il ritratto di un ragazzo presuntuoso, sicuro di arrivare chissà dove, solo in virtù delle proprie forze. Al contrario ho sempre pensato di essere “felice” proprio perché non desideravo quasi nulla. E perché, poi? Sapevo che c'era mia madre nella mia vita, l’amico nella mia vita, l’amico buono, vero, colui che non ti abbandona mai, che sa sempre ciò che è bene per te. Mai, avuto un dubbio su questo, e questo non per merito mio. Semplicemente tutto mi appariva chiaro, e giusto. Come doveva essere. Finche una serie di eventi che si sono messi di traverso, Dio! Com’è banale la vita! Ti aspetta dietro l’angolo, subdola e inesorabile. La macchina si ferma e non vuol più saperne di ripartire. All’inizio nessuna paura. Mi dicevo: non sono solo in questo bosco oscuro. Non lo sono mai stato, perché c’è una mano tesa. Basta chiedere? E infatti, io chiedevo, supplicavo imploravo. Il mio cuore era succube. Ma, ecco la sorpresa e il disincanto. Nè allora, nè mai. E pertanto la conclusione, la più sofferta è la seguente. Mia Madre non mi ama, perché non è presente neppure con la testa. Da quasi otto anni sono seduto in quell’auto, guardo dentro di me, e tutto quello che riesco a dirmi è: stupido, mille volte stupido. Come ho potuto credere a fandonie simili, dette solo per consolare me ingenuo.
Ebbene mi sono ribellato a tutto questo. Il mio desiderio è di essere felice adesso qui, e non voglio dovermene vergognare. Proclamo il diritto anche in questa vita. Non voglio che solo la sofferenza mi farà santo. Ecco mi sono sfogato. Forse, solo per dire che se un giorno mia madre tornasse, io l’accoglierò a braccia aperte.
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Corso di percussioni
di Ines Marin
Il corso di percussioni che si è tenuto in questi mesi nella casa circondariale è forse quello che più mi ha entusiasmato tra quelli a cui ho partecipato. L’insegnante Lucienne è un grande! Si è presentato a noi come un amico, con il quale condividere un’ora a settimana, un’esperienza musical-terapeutica.
Sì, perché le sue prime parole circa l’uso del djembè sono state le seguenti: “visualizzate l’immagine della persona che più detestate al centro del tamburo e su di essa scaricate tutta la vostra rabbia”. Parole magiche, no? Certo a sentirle così si poteva pensare che volesse fare di noi un gruppo di pazzi scatenati, il risultato sarebbe stato un gran baccano e nulla più.
Lezione dopo lezione invece, con nostro grande stupore, ci siamo accorti che niente era così lontano da quello che avevamo immaginato. Dalle nostre mani e con il suo aiuto, veniva fuori un ritmo coinvolgente e sicuramente “liberatorio”.
E’ buffo usare questo termine in un luogo che di liberatorio ha ben poco, ma tutti noi in quei momenti eravamo dovunque tranne che in un carcere.
A seconda del suono che si andava creando, potevamo viaggiare con la mente in tutti i posti del mondo: Cuba, Tunisia, Giamaica, Colombia… Purtroppo come tutte le cose belle, anche questa ha avuto una fine.
La conclusione del corso è avvenuta con uno spettacolo al quale hanno partecipato tutti i detenuti, sia della sezione maschile che di quella femminile. E’ stata un’esperienza bellissima.
Ero anch’io un’artista e avevo davanti il mio pubblico, cosa potevo desiderare di più? Ho picchiato su quel tamburo più che potevo, cercando di dare il meglio di me. In fondo era questo che Lucienne voleva che noi sentissimo: ritmo, coinvolgimento e sensazione di libertà.
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Corso di ginnastica
di Monia Ingussio
Attualmente presso la casa circondariale di Rovigo quattro sono i corsi effettivamente attivi: italiano, inglese, percussioni e ginnastica, ma solo quest’ultimo è al momento il più frequentato.
Il corso, ormai attivo da diversi anni, ha avuto un periodo in cui la frequenza era ridotta anche ad una o due persone, proprio ora invece il numero delle partecipanti è aumentato. Il carcere di Rovigo è un carcere “di passaggio” dove i detenuti rimangono a volte per periodi molto brevi e i corsi spesso non hanno molto successo proprio per il fatto che non si può assicurare quella continuità che un'iniziativa del genere dal punto di vista pratico richiede. A questo, si aggiunge il fattore culturale che porta, soprattutto noi ragazze, a disinteressarci di quelle iniziative che non rientrano nello specifico delle nostre abitudini. Molte sono straniere e si è notato che in particolare le ragazze di cultura rom o musulmane partecipano di meno alle diverse iniziative, per questo, a mio parere, è rilevante il fattore culturale: nella loro cultura probabilmente ciò che noi italiane consideriamo “normale” fare e che spesso sentiamo come un dovere di coerenza, per loro non lo è.
Riguardo il corso di ginnastica, le lezioni si svolgono due volte la settimana: il lunedì e il giovedì mattina per un totale di due ore settimanali; si tratta di un corso impostato a un livello medio di apprendimento e sebbene non tutte abbiamo avuto esperienze di questo tipo, l’insegnante Marina riesce comunque a svolgere la lezione coinvolgendo ognuna di noi nello stesso modo. Gli esercizi, svolti a tempo di musica, interessano tutto il corpo, i movimenti sono abbastanza veloci e centrati molto sul coordinamento. Purtroppo l’ambiente non è il più adatto per questa attività, infatti le lezioni si svolgono nella sala giochi della sezione, una stanza molto piccola che nonostante il ridotto numero delle partecipanti, risulta inadeguata per svolgere gli esercizi. Il poco spazio a disposizione è inoltre occupato da un calcetto, una tavola per il ping-pong, tavoli e sedie che utilizziamo per leggere, per scrivere e per le ore di cineforum.
La ginnastica non è altro che un insieme di esercizi che servono a irrobustire e dare armonia al corpo. Questo movimento non solo è positivo per il fisico ma muoversi ti porta anche a scaricare tutte quelle tensioni e stress che giornalmente accumuliamo con la routine quotidiana. O almeno per me è così. Da anni pratico “danza moderna” e muovere il mio corpo seguendo un ritmo musicale mi rilassa completamente. La musica la sento dentro e a volte il corpo si muove da solo; muovermi mi porta a scaricare tutti i nervi, a volte è proprio una mia necessità fisica.
A tutte quelle persone che si sentono oppresse dalla solita routine dico consiglio: muovetevi, liberatevi da tutto ciò che vi opprime, muovere il corpo è un’espressione fisica che in qualche maniera ci da la misura dei nostri comportamenti e rispecchia noi stessi.
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IRCCS non solo un servizio ma un mezzo di valorizzazione del lavoro di tutti
di Dino Previato
La lettura di articoli sul giornale relativamente alla sanità è stata oggetto di lunghe meditazioni e riflessioni che mi hanno ispirato il presente articolo, che non vuole essere una critica a chi opera nel settore, ma l’espressione ad alta voce di alcuni pensieri che chiedono risposte ad una necessità ed essere uno stimolo costruttivo, da semplice cittadino, che vuole affrontare, con tranquillità, le cure ospedaliere in Rovigo.
Un doveroso plauso a chi si è battuto per ottenere la sede del centro IRCCS in Rovigo, il fatto di aver ottenuto solo un ruolo da comprimario, non deve essere ritenuta una sconfitta, ma un vero successo, che va forse al di là dei meriti reali che la struttura sanitaria locale merita.
Il problema va visto in un contesto più vasto ed alquanto diverso rispetto a quello di remare contro questo o quello, in altre parole analizzare le risposte che si riesce ad ottenere con la nuova strutture e quelle esistenti messe a confronto con quelle che sanno dare le altre concorrenti strutture.
La risposta a questo quesito contiene anche la soluzione al problema dell’aver ottenuto l’assegnazione anche parziale del centro oncologico IRCCS.
Se i medici di base, consigliano i propri assistiti, che debbono sottoporsi ad interventi operatori, di rivolgersi ad altre strutture ospedaliere, vuol dire che qualche cosa non va? Se primari, che hanno, o per ambizione personale e per amore della propria professione, valorizzato in termini di cura la struttura ospedaliera, se ne vanno, non è tutto, solamente, dovuto all’applicazione della nuova legge! C’è o c’è stata una disaffezione frutto certamente di incomprensione ma anche di un mancato funzionamento dell’organizzazione ospedaliera? E se poi i sostituti non sono all’altezza, significa che c’è qualche cosa che non quadra!
La mia non vuole essere una sterile polemica, ma un dato reale, un’esperienza vissuta personalmente! Dio ci aiuti se dobbiamo essere ricoverati anche per una semplice tonsillectomia. Forse si pensava di nascondere il problema attraverso la pubblicizzazione dell’attività svolta per ottenere l’assegnazione dell’IRCCS, di risolvere i problemi legati alla quotidianità ospedaliera! Non è stato colpevole aver trascurato tale aspetto nella gestione dei reparti ospedalieri? E' stato fatto il possibile per portare tutti i reparti nella condizione di sopportare una collaborazione tanto rilevante per la vita umana? Non si affermi che trattatasi di una struttura a se stante, perché allora interessava a pochi e non alla cittadinanza e, quindi, non valeva la pena di spendere tanti sforzi e tante energie! La critica ha un valore solamente se serve per costruire qualche cosa di positivo!
L’interesse della comunità deve essere il primo obiettivo che deve animare un pubblico amministratore e non il contrario.
Ora al di là del successo o meno di questo o quest’altro, occorre trarre dall’evento quegli utili insegnamenti per avviare quel miglioramento generale del servizio sanitario nel nostro territorio, che ci ponga nella condizione di utilizzare il “poco” che ci è assegnato, per dare risposte sempre migliori per la cittadinanza.
Si ponga quindi la struttura, non solo al servizio della comunità tecnico/scientifica, ma anche alla cittadinanza, cercando di far dire agli operatori di base che anche nella struttura polesana si può accedere con tranquillità e si possono ottenere risposte considerate il più ottimali possibili. Solo allora cesseranno le critiche e si valuteranno obiettivamente i meriti degli operatori. Le battaglie di pochi possono essere considerate antesignane di un circolo virtuoso che porta ad un miglioramento complessivo della sanità locale, ed aiuta a crescere ed a migliorare, altrimenti sono solamente la soddisfazione di ambizioni personali. Ora quello che si è ottenuto può essere tanto se considerato l’avvio di una nuova stagione che impegna maggiormente gli operatori sanitari, i politici per un salto di qualità complessiva dell’azione ospedaliera nel nostro territorio.
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Voli di dentro
(poesie e quant’altro)
I NOSTRI CUORI SONO IMPRIGIONATI
Ondate di eterno calore,
I nostri cuori sono imprigionati
aspettano che qualcuno li liberi.
I nostri pensieri possono viaggiare
lontani, liberi.
Cavalcando sui cavalli dell’immaginazione
volano alti nei cieli,
svettano verso le cime più alte del mondo,
attraversando lo spazio temporale
per scoppiare in miliardi di scintille nel cosmo.
Ines
LA MIA PICCOLA
La mia piccola ha i capelli lisci,
biondi come il grano.
Il suo viso è sereno,
rosa come la luna.
I suoi occhi parlano a voce alta,
ridono come le stelle.
La curva del naso profuma della sua bocca;
è agile nella sua proporzione sciolta.
I suoi abbracci mi tingono di rosso.
Quando l’abbraccio
Mi coloro d’amore.
Ines
AUGURI STELLA
Auguri Stella
perché tu sarai la stella del mio futuro.
Auguri bambina bella,
alla quale giuro che farò da madre.
Auguri figlia,
perché riavrai la tua famiglia.
Ines
INCONTRO D'AMORE
Il giorno che vedrò il mio amore al colloquio
vorrei potergli dare tanti tanti baci,
ma non è possibile…
solo una stretta di mano.
Ma con i nostri sguardi noi comunichiamo
il nostro amore.
Si capisce nello sguardo le persone
che si amano davvero
E quando tu vai via
io sto male…
Jessica
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