«Prospettiva Esse – 2010 n. 1/2»
Indice
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Il significato di un impegno
a cura della redazione
Anche questo tempo di detenzione fa parte della nostra vita; per non sentirci sepolti, solamente maltrattati ed inutili, cosa ne diciamo di esprimere la parte positiva della nostra personalità? Diventiamo vero soggetto che comunica! Schedati, controllati, “osservati scientificamente”: saremmo solamente un oggetto di informazione. Questo periodico è un tentativo di esprimere la nostra esigenza di socialità: per dialogare, per comunicare agli altri ed a noi stessi, che non siamo solamente dei personaggi negativi. Guardiamo ai sentimenti e all’umanità che c’è dentro noi! La solitudine, l’isolamento, l’affettività, non sono concetti astratti, perché noi viviamo questi problemi ogni giorno, con il rischio che il nostro cuore si inaridisca sempre di più. Usciamo! Apriamoci alla speranza, che è il motore principale dei desideri che vogliamo realizzare. La coscienza di sè stessi e l’orgoglio di non sentirsi inutili? Certo! Ecco quindi un gruppo che discute e lavora, che vuole migliorare il carcere, che parla con l’Istituzione e con tutti voi, che sviluppa idee, che promuove iniziative, che vuole stimolare: dialogando e confrontandosi con ogni persona disponibile. Vogliamo essere “Gruppo di Animazione” in collaborazione con gli operatori, con il volontariato, con gli enti sociali: non più oggetti, ma soggetti della nostra realtà. Modificare questa realtà non è facile: facile è guardare senza fare nulla, subire.
Sicuramente abbiamo molte cose da dire. “Prospettiva Esse” vuole significare il nostro punto di vista che guarda alla società: “Esse” anche come speranza di migliorare la nostra vita presente e futura. Con questo, aspettiamo il contributo prezioso delle vostre idee, per essere con noi a dare forza al nostro impegno e tentare insieme di uscire almeno da quella prigione dell’anima, che è la nostra solitudine.
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A proposito della liberalizzazione
delle droghe
di Quirino Pavarin
La mia intenzione non è certo quella di proibire qualcosa a qualcuno: penso che ogni persona abbia diritto di scegliere, anche di sbagliare. Una legge può risolvere poco o niente, sia in un senso che nell’altro, perché il problema, dal mio punto di vista, non è la repressione o meno, ma una corretta informazione.
Ormai l’uso delle cosiddette “droghe leggere” è un fenomeno largamente diffuso: ma che dire di alcol, tabacco, psicofarmaci ed altro? Come dell’impotenza di fronte all’inquinamento ambientale, alla sofisticazione alimentare e all’impoverimento culturale? E’ quindi evidente che “qualcosa non quadra” rispetto ai messaggi in senso generale, dettati dalle leggi o lanciati dai mass-media.
Parlo dal mio punto di vista di una esperienza di venticinque anni di tossicodipendenza e di devianza, purtroppo ancora abbastanza disinformato rispetto ai danni reali che in genere le droghe possono causare. In questi ultimi anni ho recepito un messaggio importante: “Il problema non è la droga in se stessa”, ma la difficoltà del singolo ad affrontare la propria vita; oltre alle difficoltà oggettive dovute alla carenza di vere opportunità, soprattutto per i giovani, di esprimere la propria creatività.
Se, come penso, non è sempre vero che dallo spinello si passa obbligatoriamente all’eroina, anche questo comportamento, però, molto probabilmente evidenzia qualche disagio e disadattamento rispetto al “modello uomo “ che la società ci propone, o direi meglio impone.
La vera risposta sta, ripeto, nell’informazione, ma soprattutto nella proposta di valori diversi da quelli umanamente dissocianti di produzione-successo, sfruttamento-egoismo, sui quali è basato attualmente il nostro vivere sociale.
Una società che schiaccia l’uomo non può assolutamente considerarsi giusta. Nei fatti di ogni giorno: giovani demotivati, senza ideali e già stanchi di vivere, vite sprecate in una società decadente; altro che progresso!
L’intera società ha bisogno di una “curetta disintossicante” a parer mio!
Per ritornare al “problema”, in concreto, la risposta sta nel sensibi-lizzare, con un’informazione corretta, capillare e tenace, educando, contemporaneamente educandosi ai bisogni ed alle aspettative di ogni uomo. Una “campagna culturale” che richiede convinzione e tempo, come volontà politica ed “amore sociale” per un uomo nuovo ed alternativo.
Altri rimedi saranno solamente palliativi e temporanei.
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Un grazie a don Nereo Lamberti
di Quirino Pavarin
Desidero esprimere la mia grande stima e un sentito saluto a don Nereo Lamberti, cappellano della Casa Circondariale di Rovigo.
Un cappellano che ha svolto la sua umile missione per ben 45 anni, equivalenti quasi a due ergastoli; una persona che ci è sempre stata vicino costantemente, nel consigliarci al meglio, nel risolvere i nostri problemi.
Un uomo che, nonostante tutto, é stato sempre tra noi dentro queste alte mura della nostra sofferenza, piene di problemi alle volte inutili; è riuscito col suo modo di essere a farle abbassare talmente tanto che alle volte credevo di essere al di la del muro di cinta.
Perché il suo grande obiettivo era quello di trasmetterci sempre un raggio di sole, trasformandolo in luce di speranza verso un futuro di una nostra libertà maggiore.
Anche per lui gli anni sono trascorsi, ormai ha raggiunto la bella età di ottantasette anni e penso che la soluzione di un nuovo cappellano possa esser positiva sotto l’aspetto dell’età; così il nuovo, don Damiano, avrà modo e spazio per dedicarsi a tempo pieno in mezzo a noi, perché le capacita le ha tutte.
Sotto un altro aspetto posso anche pensare che per don Nereo sia molto triste e rammaricante lasciare questo servizio…
Ultimamente notavo la sua stanchezza, ma ricorderò sempre la sua educazione, sebbene non da tutti veniva notata e condivisa; per quanto mi riguarda ha trasmesso in me quanto di più giusto una persona può insegnarti.
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Sfumature e significati
a cura della redazione
La sofferenza e la solitudine sono gli stati d’animo che più degli altri si vivono in carcere. Sono i segnali che più risaltano anche dagli scritti del nostro giornalino. Proviamo perciò a cogliere le sfumature “idiomatiche e di gergo” che, pur se spesso legate a situazioni momentanee e personali, dobbiamo sempre considerare in riferimento all’ambiente in cui viviamo, per cercare e capire il significato delle parole e dei sentimenti.
Ci sorprende il fatto che molto spesso si possa trattare di “dolore alienato” dovuto più allo smarrimento e alla depressione che non all’esperienza di persone che esperimentano sulla propria pelle.
E’ difficile vivere veramente il dolore, il nostro e quello degli altri, perché ci fa paura, abbiamo paura del coinvolgimento emotivo che comporta. Ecco quindi la più insolita delle situazioni: in carcere ad espiare una pena che non è “nemmeno nostra”, è solamente un’astrazione, un sentimento alienato. Dura da digerire!
Il modo c’è per venirne fuori! Guardarsi dentro, guardarsi attorno, con sensibilità, accorgersi della sofferenza altrui, accettare la propria senza farsi schiacciare, farsene una giusta ragione.
Reagire, essere attivi, non tanto per evitare la noia quotidiana, ma per provare de sentimenti concreti, a stretto contatto con la realtà, anche se tragica. In questo modo le nostre parole, le parole del nostro giornalino, acquisteranno un significato diverso, profondo, più vero, e potranno aiutarci a costruire un ambiente migliore, più umano, dove ci sia posto tanto per la nostra sofferenza quanto per i desideri e la speranza.
Questo luogo dove, veramente, possa il dolore di oggi divenire la felicita di domani.
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Il coraggio del primo passo
a cura della redazione
Giusto o sbagliato che sia, al momento ci troviamo in carcere, non certo la migliore delle situazioni, né delle soluzioni; ma questo non ci deve impedire di vivere, di cambiare, di crescere, di fare dei progetti per il nostro futuro. Nel rispetto della nostra e altrui dignità. Il carcere è una “istituzione totale”, governata da leggi e regolamenti ben precisi, dove la burocrazia molto spesso predomina.
Come in ogni struttura, come in ogni situazione, si ha a che fare con persone con pregi e difetti, con il loro attaccamento al dovere come con la loro umanità.
Ci può dare soddisfazione, per un po’ di tempo, quel senso di giustizia per cui “pretendiamo” quello che ci è dovuto e recriminiamo per tutto quello che ci viene negato.
Per cercare un che di “diverso”, che ci dia il modo di esprimere la nostra creatività e sviluppare l’energia necessaria, quello che si può ben chiamare “maturare”, è necessario “assolutamente” non aspettarsi che le cose ci vengano date come se cadessero dall’alto. Sta a noi attivarci e renderle possibili.
Se da una parte per questo abbiamo spesso bisogno di stimoli esterni, dall’altra abbiamo delle facoltà che possiamo “tranquillamente” esercitare e ritenere libere: il pensiero e l’immaginazione. Libere, se cerchiamo di liberarci dai mille pregiudizi che ci condizionano e che ci allontanano dalla realtà delle cose, impedendo un vero rapporto di relazione con le persone con cui abbiamo a che fare. Non a caso troppo spesso ci troviamo a semplificare o a generalizzare in maniera eccessiva o troppo rigida.
Perché mai sto dicendo questo? Perché, nei moltissimi modi che ben conosciamo, siamo proprio noi stessi ad essere vittime di pregiudizi, spesso sbagliati, che limitano la nostra possibilità di ricominciare. E questo non ci piace! Cerchiamo quindi un dialogo per farci conoscere, per dimostrare che non si deve avere paura di noi e che siamo come ogni essere umano, non meno buoni, non più “cattivi”... Senza pretese, ma con grande senso di tolleranza. A noi il coraggio del primo passo. Con pazienza e con costanza. Ora, più che in passato, nella Casa circondariale di Rovigo c’è del “movimento”: il corso per la terza media, gli incontri di gruppo settimanali e i vari incontri con rappresentanti del mondo esterno. Cerchiamo di non perdere queste occasioni, ma di tramutarle in un percorso di conoscenza, di chiarimento e di maturazione.
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Primi bilanci
a cura della redazione
Un anno di “Prospettiva Esse”. Sei numeri, comprendendo il numero zero, di riflessioni e di cronache di fatiche e di speranze. Di sicuro un anno importante di maturazione, nel tentativo di socializzare e di attivare un dialogo con il mondo esterno. Siamo partiti da quello che ai più poteva apparire come un sogno, ma che, prendendo forma nel desiderio, come una madre ha concepito, ha creato e dato vita. I primi passi che abbiamo compiuto ci soddisfano, ma vogliamo ancora migliorare e crescere. Soprattutto questo nostro lavoro deve continuare, per essere punto di riferimento importante per chi con noi si occupa delle problematiche del carcere e, in primo luogo dei bisogni strettamente umani.
Il settore della nostra vita sociale come “cittadini”, anche se di “seconda serie”..., non è certo separato dalla nostra vita privata come individui; questo succede qui ogni giorno, in ogni manifestazione dell’Istituzione e voglio pensare che anche questo sia uno degli scopi del “progetto di rieducazione”. perché può farci sentire parte di un tutto che ci unisce ai nostri simili. E, per simili, intendo gli appartenenti al genere umano.
Non dispiacciano queste mie parole, affinché quelli di noi che hanno sbagliato, e stanno pagando, siano degni di compassione, non di disprezzo, per trovare il desiderio e lo stimolo a fare meglio nel proprio futuro. Si abbia fiducia nel tempo... Si abbia fiducia nelle capacità degli uomini di rigenerare e rinnovare se stessi.
Probabilmente, tutto questo si dà per scontato, ma è sempre meglio tornare a rifletterci, di modo che non rimangano semplici concetti astratti, ad uso e gloria di chi li professa e non fa nulla per migliorare lo stato delle cose.
E, nell’opera di rieducazione, si facciano gli sforzi concreti, per ricostruire la nostra capacità di progettualità, fornendo gli stimoli e soprattutto le opportunità. Opportunità vere che diano il modo di fare delle scelte precise per il proprio futuro e per un nuovo orientamento.
Questo è un augurio che facciamo per il futuro tempo di lavoro che, anche grazie al nostro giornalino, sia di prospettive sempre più concrete e di speranza sempre più rigeneratrice e fonte di vita.
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Nuove "prospettive"
a cura della redazione
Un caloroso saluto a tutti i lettori.
E’ con estremo piacere che annunciamo il recente aumento di persone nella redazione, attraverso cui soffia un vento di rinnovato vigore.
Ci sentiamo orgogliosi di sottolineare che questo nuovo gruppo si sta dando da fare per farsi sentire e coltivare progetti utili per la qualità della vita all’interno dell’istituto, in particolare con le attività culturali e gli scambi di opinione.
Ci siamo resi portavoce dell’intera popolazione detenuta al recente convegno di fine marzo sul tema “Sinergie tra carcere e territorio” nonostante fosse quasi a porte chiuse, l’organizzazione non ha ritenuto di darci notizia del simposio, proprio come parte in causa e avesse comunque coinvolto una parte delle sinergie tanto menzionate, escludendo il coordinamento volontari e gli assistenti sociali, che indubbiamente fanno parte del territorio; ma la polemica non è terreno a noi congeniale né simpatico; ciò che conta è che ci siamo fatti sentire e crediamo simbolicamente di essere stati anche rappresentati dal nostro amico Quirino Pavarin, dal volontario Livio Ferrari e dal direttore Nicolò Mangraviti, persone sensibili e preparate, che hanno conferito un inaspettato carattere alla manifestazione di dichiarato stampo psicologico/analitico.
Anche noi abbiamo analizzato cosa si è prodotto da tale riunione e, senza dilungarci inutilmente, crediamo siano stati correttamente interpretati i reali bisogni e le problematiche carcerarie, si siano focalizzate alcune patologie particolari di disagi sociali e fornite elaborate diagnosi e cure, anche se continueremo a chiederci quando si procederà ai tanto agognati rinnovamenti e nel frattempo continuiamo nel nostro lavoro che ci vede sempre attenti e disponibili al dialogo. Ci sentiamo comunque ottimisti, nel percepire una sensazione di cambiamenti all’orizzonte, i segnali sono numerosi da svariate direzioni, proprio per ciò queste ventate di nuovi sviluppi ci danno forti motivazioni e ci inducono a insistere nella nostra linea.
In conclusione possiamo affermare che molto è stato fatto, molto è da fare e molto si farà; la nostra voce si farà sentire ancora e ci auguriamo di trovare molti uditori così per poterci evolvere in un percorso di vita migliore e con prospettive nuove.
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Signori Parlamentari,
"non ci siamo"!
a cura della redazione
Egregi Parlamentari,
si parla ogni giorno di problemi che ci riguardano, su cui vogliamo esprimere anche noi un’opinione. Non sappiamo quanto originale, ma di certo fortemente critica: “non ci siamo, proprio non ci siamo”.
No, signori Parlamentari, non ci siamo perché ci pare che invece di andare avanti ci si ostini a continui, incerti, spesso dolorosi, arretramenti.
Quando le cose non vanno bene, qual è la soluzione? Allungare la carcerazione, mettere in discussione la legge Gozzini, togliere ai detenuti quel poco che hanno.
Ecco la soluzione salomonica!
Le condizioni di vita di oltre 50 mila detenuti che oggi si trovano nelle carceri italiane sono drammatiche: sovraffollamento, suicidi, autolesionismi, violenze, mancanza di progetti per il reinserimento nella società, etc.
Lo spirito della riforma penitenziaria del 1975, successivamente integrato dalla 663 del 1986, non è affatto rispettato, anche se in sintonia con la nostra Costituzione per cui “… le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Questo dettato però risulta assai dimenticato e ciò appare evidente rispetto a quello che accade in molti penitenziari. Molte volte ci si chiede come sia possibile sensibilizzare il potere giudiziario alla decisiva, radicale, forte soluzione che bisognerebbe adottare perché nessuno, magistrato o giudice, possa sconvolgere, limitare o disapplicare le leggi che loro sono tenuti a garantire.
Perché possano essere riconosciuti all’uomo, anche se detenuto, quei diritti che la nostra Costituzione afferma e garantisce per ogni cittadino. Si potrà mai sperare in uno stato di vero diritto? Un diritto che non sia solo di potenti verso altri potenti, ma che rispetti anche il debole, l’indifeso e il povero… o sono solo sogni?
Noi non disponiamo di una soluzione del problema, ma solo di qualche intuizione frutto di esperienze maturate in lunghi periodi trascorsi in carcere.
La cosa giusta da fare sarebbe quella di combattere alla radice alcuni mali che affliggono il pianeta carcere, per migliorare la situazione di centinaia di detenuti che ogni giorno si trovano ad affrontare una dura realtà. Sta a voi valutare, ma coinvolgendo soprattutto coloro che operano all’interno degli istituti penitenziari, augurandoci che al più presto troviate una soluzione e facciate quanto necessario per risolvere questa situazione drammatica, prima che il tutto degeneri in difficili ritorni.
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Dare poco e promettere molto
a cura della redazione
Siamo convinti che per far cessare ingiustizia e impoverimento si debba denunciare e modificare i rapporti attuali tra cittadini e amministratori della cosa pubblica.
Ma in concreto cosa vuol dire? La prima funzione è quella classica dei cittadini che votano. E’ importante mantenere un contatto costante con i parlamentari che hanno eletto ed informarsi sulle scelte effettuate dai partiti prescelti, facendo arrivare dei messaggi di approvazione, o disapprovazione sul loro operato.
Poiché sono detenuto, non avendo diritto di voto, a chi faccio arrivare in caso di necessità, le mie lamentele? E’un dilemma di non facile soluzione. In teoria posso scrivere a chiunque occupi un posto di potere e di responsabilità in qualsiasi istituzione dello Stato, ma in realtà non è altro che carta che va ad aumentare il volume dei cestini dell’immondizia.
La “parrocchia” di cui facciamo parte, si dice concepita come comunità educante attraverso l’attenzione e l’impegno concreto degli operatori che, un giorno chissà quando, dovrebbero restituire alla società persone rigenerate reinserite; ma purtroppo non è così. Mancano troppe cose, tutti lo sanno, ma fanno finta di niente.
E’ necessario ripristinare il rapporto interrotto tra il detenuto e tenendo ben presente che in questa particolare situazione è molto più deficitario il potere istituzionale che il reo. Chi viene, o è venuto, a farci visita non è colto da un sentimento di totale indifferenza. L’arrivo in carcere non concede sentimenti a metà: o lo sopporti o ne fuggi spaventato. Chi lo sopporta, dopo la terza visita si presenta a noi con la stessa facilità con cui andrebbe allo stadio o allo zoo, tanto poi basta una doccia per togliere quel puzzo di stantio che aleggia in tutte le carceri. Con questo non voglio essere irriverente, ma noi detenuti siamo gente strana e da non prendere in considerazione. Cerchiamo per un momento di lasciare da parte demagogia e utopia. La realtà è una sola: i detenuti non hanno diritti, e i miglioramenti che si sono avuti sono solamente dovuti alla necessità del quieto vivere e all’illusione di programmi oramai zoppi e obsoleti. Il carcere è un altro pianeta, distante anni luce dalla realtà quotidiana. Cosa può mai apprendere un detenuto se a prima vista non si vedono che gesti di routine che nella sostanza non insegnano niente?
“Dare poco e promettere molto” diceva Machiavelli, e purtroppo di questo motto tutte le istituzioni hanno fatto virtù.
I finanziamenti alle carceri hanno subito drastici tagli, meno soldi, meno lavoro, quindi determinati problemi si sono acuiti e le misere paghe corrisposte ai detenuti non consentono certezza di spesa e 1’argomento permesso premio.
Il risanamento dei conti pubblici non consente ulteriori finanzia-menti, ma almeno dateci i nostri. Quando un Paese, economicamente grande come l’Italia, non rispetta i più elementari canoni di civiltà ed elude gli impegni stabiliti per legge e pretende di rieducare il reo senza investire mezzi e risorse, allora ci sorgono dubbi, per meglio dire, diventano purtroppo certezze.
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Cuori imprigionati
di Mario Cuci
“Prospettiva Esse”... tre anni!!! Tanto è il tempo trascorso da quando un gruppetto di detenuti si riunì per progettare questo giornalino, tra scetticismo e diffidenza, giorni di riflessione per superare gli ostacoli, l’aiuto dei volontari e il numero “Zero” fu stampato e divulgato.
Pensando in maniera retrospettiva possiamo affermare che ”Prospettiva Esse” è stato progettato anche come punto di riferimento per chi si occupa delle problematiche dei detenuti, perché si possano instaurare contatti con la società esterna.
Tutto ciò che è stato compiuto fin qui ci soddisfa, anche se con impegno dobbiamo migliorare ancora soprattutto nella comunicazione per far comprendere che siamo maturi per socializzare con l’esterno. I risultati delle nostre fatiche e delle nostre speranze in questi anni, nell’istituto, hanno trovato strade di incontro attraverso corsi di computer, di fotografia, di scuola media, etc.
La presenza di assessori comunali e provinciali per approfondire le necessità e le problematiche di noi persone detenute, incontri con autorità ecclesiastiche e letterarie, complessi teatrali e musicali, ognuno ha portato il suo contributo.
Tra le iniziative più significative ci piace ricordare la pubblicazione di un volume di poesie dal titolo “Cuori imprigionati”, che è stato presentato all’Accademia dei Concordi di Rovigo con la partecipazione di molte autorità.
Un torneo di calcetto a cinque con squadre esterne tra le quali anche la rappresentativa della polizia penitenziaria, manifestazione denominata “Un calcio all’indifferenza”.
Da ultimo l’ottimo risultato, di qualità e di impegno, realizzato attraverso la rappresentazione teatrale di “Caramelle da uno sconosciuto” che ha avuto l’epilogo esterno attraverso due rappresentazioni alla Chiesetta San Michele di Rovigo e al teatro di Stanghella.
Insomma la prospettiva della speranza ha continuato ad alimentarsi attraverso molteplici iniziative che hanno instillato in diversi di noi il desiderio di cambiare, di impegnarsi e cercare risposte che non portino più in questo luogo.
Certamente quanto fatto sinora non basta, ma è importante, considerata l’esperienza determinatasi, che possiamo crederci perché abbiamo bisogno di essere aiutati dalla società esterna per l’inserimento nel contesto sociale senza discriminazione.
Auguriamoci che “Prospettiva Esse” possa rafforzare ancor di più il filo conduttore con il mondo esterno.
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Quale speranza?
di Mario Cuci
Siamo in questo silenzio forzato che ci separa dalla società. Cerchiamo di comunicare con il nostro giornalino, accostandoci ad essa tramite gli articoli, i commenti e le testimonianze.
Stiamo vivendo gli ultimi scorci del ventesimo secolo, il 2000 è oramai alle porte.
Cosa ci aspettiamo dal nuovo millennio? Si parla tanto del Giubileo e di giustizia, una occasione importante per ricordare che anche noi detenuti siamo fratelli di questa società.
Dio è presente sia dentro che fuori delle mura, Dio è comprensibile per tutto il genere umano. Crediamo sia il pensiero più bello ed emozionante per cogliere il senso di sentire e vivere questo anno affidando a Dio il nostro cammino.
A volte piano, talvolta irto, trovare il senso della quotidianità per il detenuto costretto a vivere nel grigiore di una cella è particolarmente difficile.
Il perdono di Dio è assicurato, anzi lo chiediamo tutti, ne abbiamo bisogno per non ricadere nel baratro che ci ha portato in errori di cui ora stiamo pagando la pena.
Il Giubileo si vive come “anno di grazia” di Dio, di speranza. Noi detenuti ci rivolgiamo al nostro Vescovo Martino che faccia da intermediario con il Santo Padre affinché interceda con lo Stato Italiano in favore dei detenuti.
Dio perdoni i nostri peccati, lo Stato sia indulgente con un atto di clemenza. E’ un evento di particolare importanza che deve servire a non spegnere il piccolo fuoco dei nostri cuori.
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Editoriale
di Livio Ferrari
Prospettiva Esse, attraverso questa nuova serie si produce in una ulteriore virata di una storia ancora giovane, infatti il giornale ha poco più di tre anni e continua a mantenere quelle caratteristiche di freschezza ed originalità che l’hanno sempre contraddistinto.
Non potevo esimermi dall’introdurre questa nuova serie editoriale in quanto l’ho visto nascere e continuamente seguito nel suo evolversi, nei mutamenti congeniti delle persone detenute che via via si sono impegnate nella redazione, o che hanno semplicemente collaborato, e chi di loro ha fatto da punto di riferimento.
La sfida iniziale era di vedere se questa iniziativa avrebbe avuto un futuro, cioè se sarebbe potuta cementarsi e prodursi nel tempo. Infatti diventava difficile ipotizzare il prosieguo dell’impegno in quanto il tutto avviene all’interno di una casa circondariale, con un numero ridotto di presenze e un continuo ricambio delle stesse, che se da una parte dà sfogo alle novità e a nuovi entusiasmi, dall’altra produce interrogativi sul grado di coinvolgimento e conservazione delle prerogative, che sono elementi indispensabili per la riuscita del giornale. Finora “Prospettiva Esse” non ha avuto la veste grafica patinata, come hanno invece la maggior parte dei giornali del carcere, ma l’investimento che da quest’anno viene prodotto dalla Direzione della Casa Circondariale unito a quello dell’Assessorato alle Politiche Sociale della Provincia di Rovigo, che sin dall’inizio ha creduto e sostenuto l’iniziativa, ha portato le novità che trovate in questo numero e che si completerà con le prossime uscite. L’obiettivo che ci si è posti sin dal principio è che attraverso questo giornale potesse circolare maggiormente la cultura della detenzione, cioè il conoscere cosa vuol dire incarcerare e separare dal territorio. Fare arrivare una informazione corretta di ciò che è la “galera” affinché chi lo legge possa uscire dalle sabbie mobili della spettacolare ed allarmistica riproduzione del carcere che ne fanno le televisioni e i giornali.
In ultimo perché poi, attraverso questo discernimento, ci si attrezzi tutti a dare risposte concrete all’atto dell’uscita dal carcere, che è il momento emblematico per un vero o mancato abbraccio che segnerà in positivo o negativo anche il nostro futuro.
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Editoriale
di Livio Ferrari
La vita di questi giorni scorre frenetica fuori che sembra più allegra e frizzante del solito. Ci sono le feste di Natale e le luci si accendono ancora una volta su strade e piazze per richiamare gente, per vendere, per realizzare, in fondo sempre e solo per vivere.
Anche la Casa Circondariale di Rovigo ha un aspetto diverso, infatti si è rimessa un poco a nuovo, esternamente e qualcosa internamente, ma le luci e i clamori, quelli, non arrivano sin qui.
Qui dentro, ogni giorno è scandito dalle stesse regole e passa con i medesimi ritmi. Solo lo sgomento e il dolore per uno che “dentro” è morto, fanno sì che trascorra una giornata diversa!
Sì, come in ogni angolo della terra, anche in carcere si muore, pur se è sconfortante il pensiero di una vita che si ferma in un luogo che in qualche maniera la nega, la limita, e che dovrebbe essere di passaggio, per servire, tra l’altro, a un’esistenza diversa, se possibile migliore.
E come per la festa, anche per la morte non giungono segnali da parte di chi sta fuori, né telegrammi, né fiori, né opere di bene! La distanza tra il territorio e il carcere è sempre troppo grande che nemmeno lo spezzarsi di una giovane vita riesce a scalfire.
Certo il muro di cinta non aiuta e il progetto di costruire un nuovo istituto in periferia tra i tanti effetti ne avrà uno di certo non secondario: quello di scavare un solco ancora più profondo tra gli abitanti della città libera e coloro che stanno in quella reclusa.
Questa affermazione è supportata dall’evidenza dei fatti, cito il più facile in questo caso. E’ sintomatico ed emblematico come tuttora, infatti, noi volontari siamo percepiti da coloro con i quali veniamo a contatto nella nostra quotidianità. La curiosità soprattutto, a volte lo scetticismo, altre l’ammirazione, sono le reazioni conseguenti alla notizia del nostro impegno, raramente avviene invece il coinvolgimento.
Tutto questo specialmente per la difficoltà di capire, tra stereotipi e preconcetti che accompagnano il pianeta carcere, e la paura di una umanità che ha espresso la parte peggiore di sè, di cui si preferisce, se possibile, non ricordarsene.
Uno degli obiettivi della presenza del volontariato nelle carceri è quello di ridurre il più possibile la distanza tra il dentro e il fuori, attraverso percorsi di coscienza e conoscenza, per alimentare modalità di “riabbraccio” nei confronti di uomini e donne che, consci della propria storia, hanno un profondo desiderio di riappropriarsi della loro dignità e confondersi in quelle luci e suoni che la vita ogni giorno propone.
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Editoriale
di Livio Ferrari
E’ solo passato un anno ma il giubileo e le conseguenti speranze che aveva alimentato sembrano così eventi lontani che quasi il ricordo è svanito. Negli istituti la vita è continuata a scorrere come e peggio di prima, visti i dati sull’aumento dei suicidi di questi primi mesi del 200l, soprattutto continua in un silenzio e rassegnazione da parte della popolazione detenuta che si sente più sola e lontana dal fuori che è la società. Perfino le discussioni elettorali, che in queste ultime settimane hanno inflazionato gli organi di stampa e televisivi, non trovano granché risonanza per una sorta di gattabuismo che rimanda gli echi e lascia spazio solo ai ritmi soliti del cambio della guardia, del passaggio dello spesino, dell’ora d’aria, della partita a pallone, delle lettere alle persone care, di ore e ore di branda con il cuore e la mente sempre più rassegnati.
Per fortuna nella redazione di “Prospettiva Esse” arrivano nuove sollecitazioni dall’aver trovato altri compagni di strada che daranno manforte nell’aumentare la qualità di questa voce reclusa da portare fuori. Infatti da circa un mese opera come volontario nella redazione Luca Pasqualini, un fotografo professionista che collabora con diversi giornali, il quale alla proposta di interessarsi di questa esperienza si è immediatamente coinvolto con energia, capacità e passione. Le foto di questo numero e quelle dei prossimi sono sue e la professionalità si vede, ma soprattutto fa sì che finalmente il nostro giornale sia tutto “nuovo” e “originale” che non è una conquista da poco.
Nelle ultime due settimane si è poi aggiunta una ulteriore presenza, quella di Sergio Sartori, che è quello con i baffetti nella fotografia di copertina della redazione, giornalista e addetto stampa della Provincia di Rovigo, il quale ha deciso di provare questa esperienza di volontariato, oltre all’impegno che già profonde in un’associazione sportiva, e nella prossima uscita diventerà il direttore responsabile di questa che sarà a tutti gli effetti una testata.
Questi ultimi coinvolgimenti sono segnali importanti che provengono da un territorio che continua a coinvolgersi e a tradurre atteggiamenti concreti di attenzione e solidarietà.
Il messaggio che ne esce, proprio nel ricordo di un giubileo che poteva esserci e non c’è stato per le persone carcerate, è che non deve accadere la necessità di produrre eventi particolari e straordinari per dimostrare interesse alle problematiche penitenziarie, ma ognuno di noi deve far germogliare la propria partecipazione. L’imprenditore e il commerciante, l’artigiano e l’associazione di categoria, l’ente locale e il privato sociale, tutti possono concorrere a dare futuro a chi uscirà dal carcere, nella consapevolezza che per ogni persona che ritroverà la propria dignità e si reinserirà nel tessuto sociale sarà stato fatto un passo in più per migliorare la qualità della vita dei nostri territori e il beneficio sarà a favore di tutti.
Questo, però, non con pietismo ma nella logica della giustizia, nell’attenzione anche alle vittime dei reati, con atteggiamenti e percorsi di riconciliazione che diano senso alla pena, perché quella che viene scontata oggi nelle carceri italiane è nel concreto solo un tempo vendicativo e svuotato degli imprescindibili significati del dettato costituzionale.
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Paura
di Gian Paolo De Mari
(direttore della Casa Circondariale di Rovigo)
Un recente articolo di Vittorio Andreoli ricorda un momento nella storia del Paese in cui sembrava si fosse finalmente stabilito un punto fermo nella persecuzione penale dei reati.
Al congresso di criminologia tenutosi a Ginevra nel 1896 Cesare Lombroso otteneva che venisse riconosciuto il principio detto della pericolosità sociale del reo. In omaggio alle convinzioni dello studioso circa una sorta di predisposizione al male da parte di chi delinque, riconoscibile anche da pretese caratteristiche fisiche che Lombroso aveva codificato, veniva affermata la possibilità di operare una netta discriminazione tra l’autore di reati e gli altri, i “normali”.
Il folle veniva equiparato al reo, pericoloso per natura, degenerato cerebrale. Inguaribile l’uno, inguaribile l’altro, pericolosi per sempre. Pericolosi ma individuabili, distinguibili. Era questo il grande pregio della teoria lombrosiana. Simili certezze anno oggi sorridere, amaramente. La legge Basaglia ha chiuso i manicomi ed ha affermato il principio che la pazzia è curabile, come qualunque altra malattia. Quanto ai rei, si è pervenuti ad un’unica umanità, ad una sola certezza: che non v’è certezza. Non esiste una separazione netta tra normalità ed anormalità.
A voler solo considerare il più grave dei delitti, il delitto per antonomasia: l’omicidio, Freud ebbe a dire che l’assassino è dentro di noi. Il caso di Novi Ligure, i serial killer, gli omicidi rituali di gruppo, non nascono da una qualche anomalia identificata o identificabile, non hanno una causale assoluta e liberatoria. Possiamo individuare tante possibili concause, ma sono limitate al caso specifico e non danno comunque una spiegazione totalizzante, non danno, cioè, ragione di per se stessi del reato perpetrato, specie quando questo è di particolare gravità.
Una sterminata pubblicistica sulle cause del reato sembrerebbe aver partorito il topolino del nulla. Non è in realtà esattamente così. La scienza, quando è vera scienza, non poggia su assiomi perentori, ma procede, deve procedere, secondo il principio popperiano della falsificabilità delle teorie e, quindi, della loro verificabilità. L’essere umano è un coacervo di emozioni, azioni e reazioni, una montagna problematica nei cui meandri può annidarsi di tutto. La dimostrazione della falsità in senso popperiano della teoria di Lombroso e di tutte quelle di coloro che si sono sforzati di dimostrare l’esistenza di una causa assoluta del crimine non ha il significato di una resa. E’ una presa d’atto che la realtà in cui viviamo è estremamente complessa, che non esistono alchimie per trasformare nell’oro di una teoria onnisoddisfacente il metallo vile, vile nell’ottica di uno scientismo panottico, di una realtà da interpretare volta per volta con estrema umiltà. L’umiltà deve ispirare i nostri studi, le nostre ricerche, i nostri atteggiamenti dinanzi al reato, dal più grande al più piccolo. Non per perdonare a tutti i costi, come impropriamente, molto impropriamente si interpreta lo studio che criminologia e psicologia hanno condotto e conducono in relazione ai reati ed a chi li pone in essere, nemmeno per trovare attenuanti a tutti i costi, il problema è capire. Dinanzi non abbiamo l’uomo criminale, realtà naturalistica inesistente, abbiamo tanti uomini quanti sono i crimini addebitati e ognuno di loro è un mondo che va interpretato e in quel mondo va calato lo specifico atto attribuito.
Il nostro sistema giuridico prevede che in sede penale non si possa fare l’analisi personologica di chi ha delinquito. Non si possa, cioè, studiare la personalità del reo, ma solo associare in modo probatoriamente significativo il reato al suo autore. E’ nel corso dell’esecuzione penale che l’ordinamento affida agli operatori il compito di studiare l’autore del reato per valutarne la recuperabilità.
Il carcere è (dovrebbe essere) un laboratorio nel quale si cerca di capire l’uomo carcerato, il mondo dal quale proviene e nel quale il reato è maturato.
Il giornale fatto da chi è incarcerato è (dovrebbe essere, per assolvere davvero ad una funzione costruttiva) un ulteriore strumento per capire. Grazie al supporto prezioso del volontariato continua ad essere stampato, presso questa Casa Circondariale, un periodico che costituisce una preziosa testimonianza delle “voci di dentro”.
Se vogliamo capire, dobbiamo ascoltare.
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Parole
di Livio Ferrari
Siamo in pieno autunno e nel carcere le stagioni si sentono più che in altri luoghi. In questo periodo dell’anno il grigio e il freddo vengono ad intristire un ambiente che già ci mette di suo! E’ soprattutto il senso di “altro”, di abbandono che raffredda questi muri vecchi e grossi dove l’umanità che vi è reclusa si sente spesso anche dimenticata.
Non sono passati che tre anni da quando i giornali gridavano all’emergenza carceri perché il sovraffollamento era diventato un problema, e allora il numero delle persone ristrette raggiungeva le 49.000 presenze. C’è poi stato l’anno del Giubileo, durante il quale molti hanno sollevato il problema di una capienza sempre meno sopportabile - si era intorno alle 53.000 unità - e il Papa, per l’occasione, chiese indistintamente a tutti gli Stati di dare segnali di clemenza a persone che avevano la loro colpa ma ai quali bisognava indicare esempi di speranza.
Siamo quasi alla fine del duemilauno e il problema carceri abbiamo scoperto che non c’è più! Almeno? Nessuno più ne parla, ora i cattivi sono i magistrati e probabilmente anche molti detenuti saranno dalla parte dell’attuale Governo. Le istanze più drammatiche, a cui è stata data priorità di risposta, sono state quelle di riportare in Italia i denari riciclati, rubati e nascosti all’estero come fosse un’operazione di alta economia. Prima, però, ha trovato ancora più urgenza la necessità di mettere dei paletti ben grossi alla possibilità di fare rogatorie per chi “pulisce” il denaro in altre nazioni. Che se da una parte è comprensibile pensando a coloro che, in questo momento sono seduti su scranni alti e ben pagati con le tasse dei contribuenti, si preoccupano di non ritrovarsi nelle patrie galere, dall’altra è diventato uno spettacolo a dir poco indecoroso soprattutto per chi in carcere c’è ed ha avuto una condanna che rapportata a quelle subite da attuali parlamentari - poi magari “riviste” nei diversi gradi del processo - fanno arrossire: ma di vergogna!
Sì, perché è inverosimile assistere a questo spettacolo, a questo teatrino della politica che calpesta la dignità e i problemi umani. E se anche le carceri sono stracolme e il numero dei rinchiusi ha superato quota 58.000 ed entro Natale potrebbe girare la boa delle sessantamila presenze, a nessuno sembra importare, se non in termini di ulteriore repressione.
L’attenzione dell’opinione pubblica e dei politici al soldo del consenso elettorale è ora tutta concentrata sulla guerra. E il termine guerra si associa a business economico, perché le leadership si ottengono in funzione dell’economia e il nostro presidente del consiglio non poteva di certo guardare la spartizione della torta senza la tentazione di sedercisi a tavola. Ecco allora, quasi temeraria, la richiesta di poter entrare in guerra anche da parte dell’Italia, che ai più sembrerà un atto di forza e valore di nazione che vuole contare nel panorama mondiale, le cosiddette superpotenze.
Non mi meraviglierei che ora - dopo il tentativo di rinverdire le tentazioni abissine - la successiva mossa fosse quella di dire alla popolazione detenuta: se volete potete scegliere: o la galera o difendere l’onore della vostra patria andando a combattere in terra araba. Ma forse pretendo troppa fantasia da chi è più abituato a far soprattutto di conto.
Ma ritornando ai nostri problemi, che restano alquanto circoscritti, forse per l’assonanza ai luoghi reclusi di cui sono appannaggio, assistiamo perciò a come l’invivibilità delle carceri venga messa in ombra da temi che trovano maggiore attenzione sociale.
Non fanno più notizia, infatti, i suicidi o l’aumento degli atti di autolesionismo, parlando di chi è recluso e nemmeno i problemi, anche questi sempre più drammatici, degli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni massacranti e a pagare molte mancanze in un lavoro che, non dimentichiamolo, è sempre rischioso.
In ogni caso, tutto ciò di cui ho detto in queste righe, restano solo parole. Parole che non diventano indignazione, come dovrebbero, ma si attorcigliano nella rassegnazione.
Parole che non assumono i toni della denuncia e della proposizione ma si annebbiano nell’oblio della distanza di uomini e donne con altri uomini e donne, di territori separati tra loro, di un’umanità intenta alle proprie fatiche senza la dovuta attenzione a chi passa o vive a fianco.
Parole che si rivestono di tonalità e colori a seconda della stagione e, tra poco, saranno ricoperte di panettoni e alberi di Natale, di parole - sempre quelle - suadenti e di speranza, che ci faranno sentire persino più buoni.
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Da giornalino
a notiziario dal carcere
di Sergio Sartori
Le mille facce dell’Italia, delle contraddizioni di una nazione che contrappone modelli d’amministrazioni all’avanguardia a sistemi superati e lontani dall’essere al servizio del cittadino, s’incontrano anche nelle carceri, e non può essere diversamente.
E’ il nostro Paese, con tutta una serie di realtà che quotidianamente apprezziamo o condanniamo, in ogni campo. In una legislazione comune per tutti, la differenza viene fatta dagli uomini, dalle loro sensibilità e intuizioni, dal loro modo di gestire e più ci si avvicina al meglio o al disagio, tanto più cresce la constatazione che è sempre l’uomo il protagonista degli eventi, nel bene e nel male. In una realtà, come la nostra, propensa ad ignorare e delegare ad altri il compito di intervenire per il reinserimento nella collettività di chi ha sbagliato, sembra non interessi come ciò avvenga. L’importante è isolare dalla società civile chi ha infranto la legge.
“Scattano le manette” o “si aprono le porte del carcere” è un refrain comune nelle cronache dei giornali. Poi il nulla. Il carcere è un’isola nella comunità, fa angoscia, non fa notizia, non fa uscire comunicazioni, non incuriosisce. Eppure in questa città blindata da sbarre e porte di ferro, dove agenti e detenuti dividono gli stessi spazi, invertendosi solo i ruoli, s’incrociano storie, costumi, destini e speranze. Noi vogliamo raccontarle tutte. “Prospettiva Esse” da giomalino del carcere, fatto da detenuti per detenuti, vuole fare un passo in più e diventare un notiziario dal carcere.
In tanti ci aiuteranno, dai detenuti ai volontari, dagli enti locali all’amministrazione penitenziaria, a diventare parte di una comunità, quella polesana, che nella solidarietà ha sempre avuto una marcia in più.
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La realtà del carcere minorile
di Ferdinando Cantini
La Giustizia si esercita, non la si impone né con leggi raffazzonatrici né con alchimie giurisprudenziali. Che anche nelle carceri minorili vi sia un profondo disagio è una realtà non più sconosciuta ormai.
Che vi sono problemi di avere i finanziamenti volti a consentire la continuazione di linee trattamentali di recupero, invece è situazione perlopiù conosciuta agli addetti ai lavori e ai Ministri inadempienti, oppure, se si preferisce, inottemperanti. Con volontà risolutrice di questa situazione di inefficienza e precarietà, interviene la proposta di una disegno di legge che è approvata dal Consiglio dei Ministri il 1° marzo 2002. Senz’altro si può notare un’inversione di marcia o di tendenza. Seppur legittima la necessità sociale di prevenire e reprimere i reati causati dai minori, la direttiva risolutrice del problema non potrà unicamente basarsi su un inasprimento delle pene oppure nell’anticipare l’ingresso del minore nel circuito penitenziario per adulti. Invece si ha l’impressione che la tendenza legislativa si voglia indirizzare a ridurre il problema della delinquenza minorile.
Togliendo dal circuito rieducativo delle carceri minorili oltre che una notevole quantità di mezzi e personale specializzato nell’opera trattamentale, anche il minore che nel frattempo matura il 18° anno di età. Sembra quasi che l’adulto (stato) a fronte delle mille domande e dei molti perché del bambino dica : “zitto e mosca, e a letto senza cena!”. Non è mai stato, questo, un modo coerente e corretto di affrontare ed indirizzare verso giusti obiettivi l’innata curiosità adolescenziale che mira unicamente a costruirsi un bagaglio di informazioni necessarie per costruirsi un proprio spazio e un proprio ruolo nella vita. Anche le devianze minorili possono essere messe su questo piano e ci saranno buone possibilità di risolverle se la risposta ad esse non sarà solo: “zitti e mosca”, e l’indirizzo perentorio imposto: “tutti a letto senza cena”.
Il minore non va giustificato in quanto tale, ma nemmeno potrà essere lasciato fuori dalla porta di casa (società), soltanto perché nella sua immatura valutazione ha imboccato una pista errata nel crearsi il proprio spazio vitale. Sicuramente non è trascurabile la necessità di eliminare dalle carceri minorili il modello negativo che può essere dato da chi si sta avvicinando alla maggiore età, però questa situazione potrebbe anche essere risolta, più coscienziosamente, con una maggiore presenza nel circuito minorile di attività incentivanti la volontà di partecipazione di ogni minore. Togliere la mela marcia non salva il paniere, anche le altre potranno marcire a suo tempo. Sì, forse si otterrà la visione di un paniere colmo di frutta fresca, quasi acerba, ma nel frattempo quante pattumiere saranno riempite? E quando tutte le pattumiere saranno riempite “chi e come” si prenderà la briga di svuotarle?
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L'amarezza
di non essere stato d'aiuto
di Dino Previato
Entrato in carcere, una delle prime persone conosciute, era un vicino di cella. Abbastanza strano per il modo con cui curava la sua persona, ma anticonformista non solo nelle parole ma anche nell’atteggiamento. Capelli lunghi, con la parlata facile, battuta sempre pronta, ma sempre sorridente.
Ebbe, in quel momento la capacità di farmi sorridere, sia per le espressioni verbali per la verità un po’ colorite, ma anche per il suo atteggiamento davanti alla “galera”. Espressione anche di un modo di vivere e di credere nella vita. Ebbi l’impressione che a suo modo fosse unico e solitario, cui non mancava lo spirito e con un’esperienza particolare di vissuto da trasmettere. Forse la sua vita non era stata idilliaca, ma le sue scelte mi sembravano convinte.
Quanto diversa è sembrata la persona che vidi all’esterno, quando fui ammesso all’art. 21 e lo incontravo sulla strada del ritorno in carcere. Trasandato nel vestire, barba lunga. Si era lasciato crescere un pizzetto che lo tratteggiava e lo caratterizzava in maniera straordinaria. Ti chiedeva due euro per andare a Papozze, la sua terra d’origine, per acquistare il biglietto dell’autobus perché gli era stato notificato il “foglio di via”, ma tu capivi che servivano a lui per vivere o per bere. Molto fragile ed insicuro quasi quanto si sentiva protetto all’interno del carcere. Recuperava l’alcool che per i dieci mesi della sua permanenza nella casa circondariale non aveva mai assaggiato. Beveva solo latte e acqua.
Nella sua vita all’esterno era diventato una figura caratteristica, simbolo, almeno per chi lo conosceva, di un modo di vivere che ci pareggiava con le grandi città. Era andato agli onori della cronaca senza aver disturbato qualcuno. Nessuno sapeva dove dormiva, ma intuivi, quando lo incontravi, che aveva passato la notte su una panchina. Tutti i suoi averi erano raccolti in una borsa che portava con sé a tracolla, quando faceva il giro della città cercando qualcuno che gli allungasse un piatto di pasta o il denaro per le sigarette e per bere. Qualche volta entrava in un supermercato e si prendeva quel tanto per vivere quella sua strana giornata e per questo è andato agli onori della cronaca.
Si avvicinava l’inverno, e fra noi che nel frattempo lo incontravamo, ci si chiedeva cosa ne sarebbe stato di lui, sarebbe ritornato in carcere? L’avevano liberato perché aveva scontato un periodo di detenzione maggiore rispetto alla pena comminata. Sarebbe entrato in una comunità per curarsi e sottrarsi all’alcoolismo? Interrogativi senza risposta.
Lo trovai una sera sulla porta della chiesa di S. Domenico e mi raccontò che qualcuno gli aveva, perfino, rubato le scarpe mentre dormiva. Stranezze della vita, c’era qualcuno che stava vivendo una situazione peggiore della sua.
Quanti di noi che l’avevano conosciuto, meglio dire gli avevano parlato assieme, si sono posti il problema di questo “personaggio”, che forse avrà anche cercato un lavoro trovando tutte le porte chiuse perché si dichiarava di essere stato un detenuto? Quanti di noi si sono tranquillizzati la coscienza, affermando che si trattava di una sua scelta di vita. Aveva perso casa, lasciato i suoi cari, aveva rubato per vivere sentendosi defraudato dalla società che non capiva il suo modo di vivere.
La sua solitudine, la sua vita disgraziata è andato a chiuderla sotto un ponte dalle sue parti. Stranezze della vita, lì era nato, lì aveva passato i suoi anni, lì ritrovava un amico Sindaco che l’ha aiutato sino a che si lasciava aiutare, e lì ha trovato il riposo alle sue ansie, alle sue insicurezze ed alle sue strane certezze e posto fine alla sua vita d’anima persa.
Ho ritenuto opportuno ricordarlo, non tanto per tacitare la mia coscienza, nemmeno per illustrare la vita di un santo, ma solamente perché era uno come noi che, pur nel suo modo incoerente di esprimersi e di vivere, ha voluto far capire quanto sia preziosa la vita e come ognuno debba spenderla per migliorare se stesso.
Voleva per noi l’antitesi della sua vita. Era consapevole che in una società consumistica come la nostra sarebbe stato difficile. La sua fragilità la esprimeva contro uomini in divisa, forse colpevoli di rappresentare un ordine costituito che lui rifiutava e che tutto avevano per emarginarlo e soprattutto per colpevolizzarlo. Almeno questo era il “suo” modo di vedere le vicende della sua vita.
Sono state scelte sue, ma quanti di noi si sono adoperati per educarlo e riportarlo nell’alveo normale della vita sociale? Tutti colpevoli e tutti assolti!
Va in pace “Carluccio”, e grazie perché con la tua triste esperienza di vita ed a modo tuo, costretto o no dai fatti della tua esperienza, mi hai fatto capire che la tua scelta di vita non è un esempio da seguire né da additare.
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Indulto o indultino,
tante parole e speranze vane
di Ferdinando Cantini
Le iniziative di protesta sono solo momenti, istanti in cui lo sfogo al disagio vissuto trova apice. Ecco perché qualsiasi controversia non dovrebbe mai affidarsi alla contestazione di massa per trovare la propria risoluzione.
Le voci del coro si afflosciano in fretta, i problemi irrisolti rimangono tali... “mal comune mezzo gaudio”, così ognuno ritorna nel suo spazio silente, con la medesima croce, aggravato dal peso di un governo inutile in più.
Riprendendo il lavoro di redazione del nostro giornale, riassumiamo le iniziative di contestazione al “Sistema Carcere”, che i detenuti nella Casa Circondariale di Rovigo, nella piena condivisione di volontà di gruppo, hanno cercato di portare alle attenzioni esterne. Vorremmo ora che l’attenzione di chi ci legge non fosse focalizzata solo sulla sostanza delle nostre iniziative o sui disagi evidenziati nella pacifica protesta, ma che si cercasse almeno per una volta, di considerare il carcere solo come un luogo di momentanea privazione della libertà, ma in cui rimangono inalienabili:
La vicenda legislativa delle proposte di “Indulto o Indultino” non si è ancora conclusa . Alla Camera è stata approvata (stiracchiatamente) una delle proposte di clemenza, però ora tutto si è insabbiato al Senato forse irrimediabilmente.
Le carceri non possono continuamente essere considerate terreno di scontro politico su cui coltivare slogan per raccogliere bassi consensi elettorali.
Le carceri sono un’istituzione sociale e con la società e nella società devono progredire e rinnovarsi.
Una società o un potere politico che non sanno gestire il problema odierno delle carceri, non possono aspirare a costruire nuove carceri che prima o poi, inesorabilmente, anch’esse verrebbero a riempirsi dei problemi oggi non risolti .
Le nostre azioni dimostrative che abbiamo effettuato nel caldo dell’azione legislativa, non sono azioni di protesta e contestazione, bensì sono la denuncia di un problema esistente e non ancora risolto.
Quindi il loro senso di testimonianza si rinnova, purtroppo, quotidianamente a specchio della nostra realtà reclusa.
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Voce dal carcere
di Labidi Ezzedine
Gentili signori, non avevamo chiesto solamente una misura qualsiasi di indulto, ma che le carceri diventassero più umane, ricordando che una parte dell’articolo 27 della Costituzione prevede la rieducazione del detenuto. Non chiediamo di tornare solamente in libertà, ma che ci venga offerta la possibilità di riparare agli sbagli commessi nei confronti della società.
E che cosa, se non un atto di clemenza, sarebbe più significativo di una riappacificazione avvenuta dopo la rottura con la società?
Perché la persona finita in carcere non interessa più a nessuno? Perché, se previste dal codice penale, non vengono applicate le norme riguardanti le pene alternative se non in casi eccezionali?
Troppo spesso attraverso l’etichetta di “detenuto” viene cancellata anche la dignità riconosciuta ad ogni essere umano.
Siamo consapevoli del nostro sbaglio, ma sappiamo anche che dietro quel volto di detenuto c’è una storia, una storia umana con tutto il suo bagaglio di gioie e sofferenze, di amore e delusioni, di valore e di debolezze, che nessuno conosce e perciò è in grado di giudicare.
Lo stato di prostrazione che ci coglie, il sentirci abbandonati, lo scoprire di essere abbandonati dalla società, recepire che non si è nessuno per gli altri, è davvero umiliante e disumanizzante.
Quindi non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono, a questo punto diventa inutile aggiungere altro.
Il messaggio vuole essere chiaro ed è un messaggio di speranza per noi detenuti. Ma che lo sia anche per la società affinché, attraverso politiche di reinserimento sociale, diventi capace di dare speranza ai detenuti spesso dimenticati nelle carceri.
Ogni uomo, in quanto tale, è capace di cambiamento. Il recupero non è impossibile, basta volerlo attivare per realizzarlo insieme.
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La vita vale la pena viverla
di Modesto Pizzo
Che ore serene ho goduto un giorno, come ancora ne è dolce il ricordo, ma mi hanno lasciato un vuoto che duole, un vuoto che il mondo non riempirà mai, ma un fisso inalterabile dolore, non dimentico ciò che il cuore ha dentro.
Resta dunque la medesima tristezza, né si cura di vista e di stagioni. Non ho mai conosciuto una felicità piena che durasse a lungo, i miei giorni sono sempre amareggiati. Penso di non rimpiangere un solo “eccesso” della mia vita aperta a tutti gli stimoli, mi rammarico solo ora che sono qua delle occasioni e delle possibilità che non ho saputo cogliere. Vivo più che posso, devo imparare a vivere con l’illusione della libertà.
La vita senza amore non è vita, questa è la conclusione.
Libertà è la prima parola che mi viene in mente, quando penso alla parola libertà sono felice nel senso più ampio del termine, che rinchiude cioè fortuna e piacere. Quale felicità veramente c’è nella parola solitudine? Chi può godere da solo, ovverosia come posso trovare la felicità nel godere di ogni cosa? E’ indicativo il fatto che i legami a cui più tengo riguardano persone ben precise che mi sono care. Moglie, figlia, amici e talvolta anche posti particolari.
Questi pensieri specifici che faccio mi appaiono come unici e insostituibili, sembrano racchiudere tutto il significato della mia esistenza. Mi sono riservato un retrobottega tutto mio, sicuro, in cui possono collaborare la mia vera libertà, il più importante ritiro e la solitudine. Soltanto quando sono solo posso scoprire la vita personale, nel tempo che passo qui la solitudine era la mia tentazione, ora è la mia amica. Di che altro potrei accontentarmi, dopo aver incontrato il carcere.
Ho fatto la mia passeggiata quotidiana alle ore quattordici del pomeriggio, mi sono fermato ad ascoltare il silenzio, chiamavo, urlavo dentro di me i nomi più cari, e come risposta mi arrivava del vento freddo. La peggiore solitudine è l’essere privi della vera amicizia; il detenuto, salvo quando mangia, dorme o passeggia o viene interrogato, è lasciato completamente solo.
Ho visto che il saper stare soli rappresenta una preziosa risorsa, mi permette di entrare in contatto con i miei sentimenti più intimi, di superare il dolore di una perdita, di riorganizzare le idee, di mutare atteggiamenti. Non c’è luce nel mondo del carcere, è tutto buio, in questa tenebra si riesce a trovare la pace e la capacità di vivere in un mondo privato, fatto di illusioni.
E’ come se avessi intrapreso un lavoro con la mia fantasia che si prolungherà ormai per anni, sono spinto a sfruttare le risorse della mente, a non lasciarmi sfuggire nulla di significativo, a creare qualcosa.
Le lezioni che ho imparato per la mente sono: che devo cercare in me stesso la felicità e che qualsiasi difficoltà può venire superata nel momento che l’affronto: ho risorse interiori a sostegno.
Questo cambiamento in me è dovuto ad una sola cosa: ho imparato a sopportare senza mormorazioni mentre prima mi sforzavo di tenermi attaccato ancora a mille cose e siccome tutte una dopo l’altra mi sono sfuggite, ridotto a me solo, ho ritrovato infine il mio stato normale, pur incalzato da ogni lato rimango in equilibrio perché non mi attacco più a nulla, non mi appoggio che su me stesso.
Da allora ho ritrovato la pace dell’animo e quasi la felicità, perché in qualunque situazione io mi trovi è soltanto l’amor proprio a rendermi felice.
Il mio cuore si nutre ancora di sentimenti per i quali vivo con gli esseri immaginari che io produco e come questi esistono realmente ed esisteranno finché durano le mie infelicità e basteranno finché durano le mie infelicità e basteranno a farmele dimenticare… per il resto lascio fare alla mia vita, perché la vita ha ragione in ogni caso.
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Politica e giustizia
a cura della redazione
Seppur la politica non sia delegata a gestire direttamente la giustizia, è innegabile che sia per dovere di “polis” che per immancabili ragioni di parte, si trovi al centro del dibattito politico e di conseguenza mediatico.
La mia scarsa preparazione in materia, unita alla ancor più scarsa volontà di introdurmi in un così accidentato territorio come la discussione politica, mi consigliano di non entrare nel merito, ossia cercare di valutare se la ragione stia a destra o a sinistra e se le varie posizioni di giudici ed avvocati sulle recenti proposte e leggi siano corrette oppure no.
Tuttavia la recente visita del ministro della giustizia alla città di Rovigo, mi offre lo spunto per dare una mia opinione sulla difficile situazione carceraria italiana. Sono fortemente convinto che in un paese civile la pena per chi infrange la legge debba essere certa ed equa, ma altresì che il detenuto sia prima di tutto “uomo”, perciò che la pena debba essere scontata in condizioni buone, tanto dal punto di vista psicologico che da quello igienico e sanitario.
Credo, quindi, che se non si hanno strutture adatte non si possano inventare; ma allora, che cosa fare se il sistema carcerario in Italia è al collasso?
Al momento l’unica cosa che si è fatta è quella più semplice, ovvero restringere gli spazi e continuare ad utilizzare le stesse strutture anche se obsolete e malsane.
Mi spingo a dire di condividere con il ministro la tesi secondo cui non si possa considerare una soluzione quella di mettere in libertà ‘tout court’ i detenuti, anche perché invece di risolvere i problemi forse se ne creerebbero degli altri, magari di ordine pubblico. E’ una tesi che, come già detto, in parte condivido ma con dei distinguo che preciserò in seguito.
Chiaramente, come sempre, le possibili soluzioni stanno nel mezzo o almeno in quella direzione. Innanzitutto una considerazione è doverosa in merito alla carcerazione preventiva, ossia di chi come nel caso del sottoscritto non è ancora stato giudicato, in quanto nel resto del mondo cosiddetto ‘civile’ tale ufficio è molto meno usato ed è in gran parte risolto da una semplice cauzione a garanzia della buona condotta da parte della persona sottoposta ad indagine, imputata o in attesa di giudizio definitivo. Se si pensa che la carcerazione preventiva, che personalmente considero una ‘anomalia’ italiana, permetterebbe da sola di alleviare alla congestionata situazione carceraria fino a circa un terzo del carico totale, si capisce come la stessa non è mai da considerarsi fattore marginale ma bensì sostanziale e determinante concausa.
Una seconda fonte di meditazione è innegabilmente la spesso disattesa concessione di misure alternative alla detenzione carceraria, come la detenzione domiciliare, l’affidamento al lavoro, ecc., che se da un lato allevierebbero il peso che le strutture carcerarie debbono sostenere dal punto di vista numerico e conseguentemente economico, dall’altro potrebbero, in linea di principio, agevolare il reintegro graduale nella società civile dei detenuti che spesso si trovano, viceversa a dover uscir dal carcere alla scadenza della pena, privi di mezzi economici e senza opportunità di lavoro e quindi di fatto senza alcun reintegro. Negli avanzatissimi paesi del nord Europa sotto questo punto di vista stanno tracciando una nuova via proprio favorendo un più graduale e veloce reintegro sociale e visto che da quanto risulta non hanno situazioni di delinquenza più alte rispetto al nostro Paese, si può supporre che il metodo funzioni.
In ultima, ma non meno importante, analisi vi è la paventata costruzione di nuovi e più efficienti istituti penitenziari, ma non prima di chiederci con quali tempi e con quali soldi. Infatti, se anche si volesse risolvere il problema del degrado carcerario italiano unicamente con la costruzione di nuovi plessi, credo sia chiaro che si tratti di soluzione con efficacia solo nel medio se non addirittura nel lungo termine.
Innanzitutto perché le costruzioni pubbliche necessitano notoriamente di lunghi tempi di esecuzione ed anche perché le risorse finanziarie sono sempre più scarse e permettono al più di rattoppare qua e là più che di risolvere il problema in via definitiva.
La politica italiana ha il dovere, se non di risolvere, almeno di alleviare la situazione, non per una questione di giustizia, ma di civiltà e questo senza valutare se un provvedimento di amnistia ed indulto siano una sconfitta oppure una vittoria. Quando uno Stato non riesce ad amministrare cose così importanti efficacemente ne esce chiaramente sconfitto in ogni caso, sia concedendo il provvedimento sia costringendo esseri umani a vivere in condizioni di degrado psichico e fisico.
Ci si deve insomma soffermare alla sola questione di opportunità, che magari si poteva palesare in un grande evento come l’avvento di un nuovo Pontefice; l’occasione comunque è stata persa ed ora che stiamo praticamente in campagna elettorale penso che le ragioni dei detenuti passeranno in secondo se non in terzo piano.
Il prossimo anno, in occasione dell’elezione del nuovo Capo dello Stato, l’opportunità di discussione si presenterà probabilmente ancora una volta.
Fino ad allora i detenuti e relative famiglie di tutta Italia rimarranno in attesa di novità e, c’è da giurarlo, in uno stato di superaffollamento e degrado ancora maggiori di oggi.
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Caro Babbo Natale
a cura della redazione
Caro Babbo Natale,
ognuno di noi ha preparato le letterine con tutti i desideri che solo tu puoi esaudire. A parte quello di voler uscire da qui nel tuo grande sacco pieno di doni. Caro Babbo Natale che tanto giri, mentre a noi qui girano solo le scatole!
Vorremmo chiederti se tu potessi spazzare il delirio di onnipotenza di cui l’uomo si fa convinto opprimendo il prossimo.
E poi, già che ci sei, fornisci del dono dell’intelletto talune menti che non si rendono conto d’essere dementi e recano danno nel loro non sapere. Lasciaci arrivare a toccare la saggezza a cui gli umili ambiscono senza prevaricazioni e senza giudizi di parte, viste tutte le richieste fin qui elencate.
Caro Babbo Natale,
non può non venir meno quella di spogliare l’uomo dal potere materiale, mezzo di distruzione e di misura che sminuisce il valore morale. Dacci una mano a combattere l’ignoranza che è una potenza, anzi è una violenza. Magari fatti regalare un po’ di carbone da Santa Lucia, che serva da monito a tutte le sordità dell’animo e a quanti non si impegnano nel sociale mettendo una benda alla visione di chi soffre.
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