«Supplemento speciale - 1996 n.2»
SUPPLEMENTO SPECIALE
"VOLONTARIATO E SERVIZIO SOCIALE NEL SISTEMA GIUSTIZIA:
QUALI INCOMPRENSIONI E QUALE COLLABORAZIONE"
Atti del XVII Convegno Nazionale
Passo della Mendola (TN)
30 giugno - 2 luglio 1995
VOLONTARIATO E SERVIZIO SOCIALE NEL SISTEMA GIUSTIZIA.
QUALI INCOMPRENSIONI E QUALE COLLABORAZIONE.
dott. Salvatore Piromalli
Segretario Nazionale Coordinamento Assistenti Sociali Giustizia
Vorrei prima di tutto ringraziare il SEAC, per avermi data l’opportunità di partecipare a questo convegno, in rappresentanza di una associazione professionale - il CASG - che è molto aperta e interessata a dialogare con coloro che, a vario titolo, operano nel settore penitenziario. Già al nostro primo convegno nazionale di Fiesole, nell’ottobre 1994, si erano gettate le basi per una conoscenza reciproca e per una collaborazione tra i due organismi, una collaborazione che spero si intensifichi e si rafforzi nel futuro: questa ulteriore occasione di incontro va certamente in questa direzione.
La tematica specifica, che ho il compito di introdurre, non ha avuto in passato, da quanto mi risulta, grande spazio e grande attenzione: siamo stati abituati a vedere il volontario - singolo o organizzato - come un soggetto impegnato principalmente all’interno del carcere, in quel microcosmo in cui più drammatiche sono le condizioni di vita delle persone recluse, in cui più evidente è il bisogno e la sofferenza.
Questa attenzione - per molti versi comprensibile - al luogo precipuo della pena (il carcere), ha finito per caratterizzare in maniera quasi esclusiva l’attività del volontariato penitenziario, lasciando poco spazio ad altre possibili sperimentazioni, ad altre importanti funzioni che il volontariato potrebbe realizzare nel settore dell’esecuzione penale esterna. Mi riferisco in primo luogo al rapporto di collaborazione tra volontariato e servizio sociale della giustizia istituzionalmente rappresentato dai CSSA (Centri di Servizio Sociale per Adulti).
Mi sembra perciò importante poter approfondire questo aspetto, attraverso l’analisi di alcuni fattori problematici che hanno “inibito” la cooperazione tra i due ambiti considerando sia il fronte del volontariato, sia quello degli operatori sociali; una analisi condotta da un punto di vista non istituzionale, che spero riesca ad essere critica ed autocritica al tempo stesso. Infine, per non restare solo al livello dei ‘problemi’, cercherò di articolare una ipotesi di intervento del volontariato nel settore delle misure alternative alla detenzione, all’interno di un nuovo modello professionale e organizzativo del CSSA.
1. I fattori problematici della collaborazione
Può essere utile partire da alcuni dati concreti che ci consentano di valutare la consistenza numerica della presenza del volontariato in ambito penitenziario. Le persone che, a titolo individuale oppure organizzati in gruppi o progetti, prestano la loro opera volontaria nel settore che ci interessa, sono in totale 899. Di esse, meno di 20 operano direttamente nei CSSA. Questi dati si riferiscono solo agli assistenti volontari (art. 78 O.P.), che come sappiamo, hanno un profilo sostanzialmente diverso da coloro che rientrano nell’art. 17: infatti, mentre l’intervento di questi ultimi ha un carattere contingente e un valore di semplice partecipazione e testimonianza, l’assistente volontario svolge invece un’azione coordinata, continuativa, che ha obiettivi e modalità particolari. E’ immediatamente visibile come la presenza del volontariato tenda a polarizzarsi all’interno del carcere, per ragioni che - dicevo prima - possono essere abbastanza comprensibili:
- in carcere si trova oggi la maggior parte dei soggetti in esecuzione di pena: mentre i soggetti in misura alternativa sono circa 12.000 (la tendenza è comunque in aumento), negli istituti sono presenti oltre 53.000 detenuti;
- questi soggetti vivono in condizioni materiali e psicologiche molto precarie, a volte degradanti e inumane, per il sovraffollamento delle celle, sia per la sempre maggiore inconciliabilità tra esigenze della detenzione e diritti del cittadino detenuto, primo fra tutti il diritto alla salute, ma non solo;
- il detenuto, per la sua particolare condizione di vita e di relazione, è un destinatario più disponibile, più “bisognoso” di interventi sociali e di presa in carico;
- il volontario, quindi, può operare su una gamma di bisogni e di situazioni problematiche pressoché illimitata, sempre al di sopra delle energie umane e delle risorse disponibili.
Questo aspetto si collega anche ad una tendenza (o forse ad una tentazione) storica del volontariato: privilegiare l’istituzione totale, il luogo fisico della sofferenza umana, anche quando ciò potrebbe limitare la presenza e il ruolo del volontariato ad un ‘fare’ più “assistenzialistico” e meno promozionale.
Se queste ragioni hanno avuto e hanno la loro importanza oggettiva nel determinare uno spostamento così evidente di forze volontarie dentro il carcere, piuttosto che nei CSSA, tuttavia credo si possano individuare anche alcuni altri fattori.
Una prima motivazione, di carattere politico generale, ha a che fare con una concezione della pena che, in vario modo è stata assorbita dalla opinione pubblica e dalle forze sociali, ma anche dai responsabili dell’amministrazione penitenziaria e, qualche volta, dagli stessi operatori: mi riferisco a quella concezione ‘monca’ della pena che la identifica prevalentemente con la detenzione, con la privazione della libertà, con il carcere.
E’ una incrostazione culturale dura a morire, una sorta di sguardo unilaterale al problema penitenziario, che invece è più complesso perché in esso si collocano non una, ma due modalità di esecuzione della pena: la pena detentiva e le pene in libertà, le alternative alla detenzione.
E’ anche un elemento rivelatore di quanto ancora debbano attecchire i principi della riforma che, nonostante alcuni suoi limiti, ha avuto il grande merito di produrre una nuova cultura della pena, più pluralista e più flessibile, tendenzialmente rivolta al superamento del paradigma carcerario. Mi chiedo allora quanto questo vizio culturale e metodologico abbia influito e influisca nel mantenere il sistema delle misure alternative in una condizione costante di sottosviluppo, di sotto-organizzazione, di sotto-dimensione; quanto condizioni negativamente le scelte dell’amministrazione, la distribuzione delle risorse finanziarie, i principi di equità, di razionalità, di efficienza organizzativa (solo un esempio: le misure alternative assorbono appena il 2-3% dell’intero bilancio del DAP; una sproporzione simile al rapporto tra volontari che operano nel carcere e volontari presenti nei CSSA).
Allora: abituarsi a pensare a due settori di esecuzione della pena integrati ma autonomi e paritari, significa contribuire a costruire la cultura della riforma, che accomuna il ‘fare’ di quanti, a vario titolo, operano nel nostro settore; significa, per l’operatore, mantenere vivo il proprio ruolo sociale di agente di cambiamento; significa, per il volontariato, sperimentare un’ottica promozionale di apertura, che vada oltre la centralità del carcere.
L’analisi dei fattori che inibiscono la collaborazione tra volontariato e servizio sociale della giustizia deve comunque andare oltre questo aspetto, per quanto centrale. Esistono aspetti più concreti che interagiscono, che sono più vicini all’operatività e all’esperienza quotidiana. Farò riferimento, schematicamente, a tre diversi ordini di fattori, considerando sempre i due soggetti in gioco: il volontariato e il servizio sociale.
a) FATTORI ORGANIZZATIVI: per quanto concerne i CSSA, mi riferisco al loro modello organizzativo attuale e al modo in cui essi operano nell’esercizio quotidiano delle loro funzioni e dei loro rapporti con il contesto sociale locale. Credo sia necessario riconoscere che, nonostante alcune esperienze positive, il modello del servizio mantiene ancora alcune caratteristiche di ‘autoreferenzialità’ e di ‘separatezza’ rispetto all’esterno, una sorta di difficoltà e di resistenza a collocarsi sul territorio, ad interagire a 360 gradi con le altre forze sociali, a stabilire e potenziare rapporti di collaborazione con tutti i soggetti che intervengono nei processi di risocializzazione e di reinserimento dei detenuti, in uno stile di apertura e di complementarietà. A spiegare questo ‘limite’ oggettivo potremmo richiamare cause di natura storica (anche il servizio sociale nasce ‘nel’ carcere, e spostare il baricentro del proprio intervento sul territorio, emanciparsi dal carcere non è cosa facile); oppure cause di natura istituzionale (la mancanza di una piena autonomia e di una stabilità organizzativa dei Centri); oppure ancora cause di tipo operativo (il carico di lavoro, l’emergenza, lo stress a cui sono sottoposti gli operatori). Tutti elementi importanti, che hanno avuto la loro parte nella difficoltà dei singoli CSSA a collocarsi come soggetti centrali nella gestione delle misure alternative, ad elaborare una politica del servizio aperta, flessibile, che diventi punto di riferimento e di stimolo per quanti ‘entrano’ nell’esecuzione penale esterna, compreso il privato sociale e il volontariato. Un CSSA così configurato (e più avanti svilupperò meglio questo modello organizzativo) darebbe all’esterno segnali di maggiore disponibilità, di maggiore accessibilità, fino a poter addirittura inventare e promuovere occasioni di partecipazione della collettività all’esecuzione delle pene alternative.
Per quanto concerne il volontariato penitenziario (qui il dibattito potrà meglio integrare la mia analisi), mi pare sia in generale carente sul piano nazionale una funzione di coordinamento e di organizzazione delle risorse, di indirizzo, di stimolo ad una gestione più estesa e razionale degli interventi, di input culturale a considerare tutto il percorso che l’individuo attraversa durante la pena, che inizia spesso (ma non sempre) in carcere, ma che termina, o dovrebbe terminare, all’esterno, in mezzo a difficoltà di reinserimento che renderebbero urgente e necessario anche il contributo del volontariato. Credo che l’organizzazione dell’intervento sia ancora più legato al “bisogno” materiale e psicologico dell’individuo, e meno ad un’opera che parta dall’individuo per coinvolgere la collettività, in un processo di promozione della solidarietà sociale e di educazione culturale al superamento del paradigma carcerario: le misure alternative e la collaborazione con il servizio sociale offrirebbero, da questo punto di vista, un’ottima occasione per ridefinire e potenziare l’azione volontaria.
b) FATTORI CULTURALI: in questa definizione vorrei far rientrare tutti i problemi connessi alla cultura e alla dialettica del rapporto pubblico-privato sociale, cioè tutte quelle difficoltà di collaborazione che nascono, per gli uni dall’essere più o meno identificati con il polo pubblico-statale-istituzionale, per gli altri dal riferirsi ad una prospettiva di intervento libera, che si collega alla società civile e alle forze sociali. E’ un tema che riguarda tutti gli ambiti del lavoro volontario, ma che si manifesta con maggiore intensità nel penitenziario, perché qui il polo pubblico, titolare dell’esecuzione penale, è caratterizzato da maggiore rigidità, burocratizzazione, impermeabilità rispetto alla presenza esterna, e d’altro canto il sociale è ancora debole, poco incisivo, non sostenuto forse da una cultura diffusa di tolleranza e di solidarietà verso il detenuto.
Il rapporto tra questi due poli, quindi, anche se non mancano aperture ed esperienze positive, presenta maggiori difficoltà nella ricerca di modalità, strumenti, occasioni di collaborazione, capacità di sperimentazioni. A questo livello potrebbero sorgere anche problemi relativi al ruolo che ciascun soggetto svolge: il servizio sociale potrebbe percepire la presenza del volontariato come un elemento inopportuno, scarsamente capace di comprendere il contesto penale, i numerosi e complessi aspetti che esso sottende, anche con riferimento alle funzioni degli operatori sociali (aiuto-controllo, sicurezza-trattamento); il volontariato potrebbe, dal canto suo, essere indotto a radicalizzare l’intervento di sostegno alle persone, senza la necessaria contestualizzazione, favorendo magari contrapposizioni con gli operatori sociali visti come rappresentanti dell’istituzione, come burocrati, senza tenere conto del mandato istituzionale di cui essi sono depositari e dei conflitti professionali che tale mandato genera.
Insomma, una corretta dialettica pubblico-privato sociale necessita di una approfondita conoscenza del contesto in cui si opera, dei variegati aspetti che esso presenta, delle ripercussioni su chi lavora, anche per poter meglio incidere nelle situazioni, in un atteggiamento non di rivalità ma di complementarietà.
c) FATTORI PSICOLOGICI: in questo terzo ordine di fattori farò riferimento ad un complesso insieme di atteggiamenti, percezioni, dinamiche di comunicazione e di relazione tra operatori sociali penitenziari e volontari, che fanno parte spesso di stereotipi, pregiudizi, mancanza di conoscenza reciproca. Questo è forse l’aspetto che più direttamente viene sperimentato, o che comunque crea in pratica non poche incomprensioni e difficoltà di rapporto.
In parte queste incomprensioni si collegano a quanto detto prima, a proposito del rapporto pubblico-privato sociale. L’istituzione per sua natura tollera mal volentieri tutto ciò che fuoriesce dalle proprie logiche, che proviene da altri punti di vista, da altri modi di operare, che non soggiace alle stesse regole rigide e definite: per questo il volontario è spesso considerato (o meglio percepito) come elemento “astruso” all’interno dei meccanismi istituzionali, e per ciò stesso inadeguato, inopportuno, estraneo al contesto, perfino dannoso perché causa di disfunzioni o di modalità operative giudicate improprie, improvvisate, spontaneistiche, assistenzialistiche, individualistiche. Insomma: il volontariato come irruzione nell’istituzione di frammenti di novità e di diversità che non sono considerati arricchimenti, presenza complementare, ma fattore di disturbo.
D’altro canto bisogna dire che questa immagine del volontario, distorta dagli stereotipi e dalla tendenza dell’istituzione ad auto conservarsi nei propri equilibri interni, è stata forse inconsapevolmente introiettata dal volontario, fino a condizionarne, in alcuni casi, lo stile di lavoro, di relazione con gli operatori, il “porsi” nei confronti dell’istituzione e dei suoi meccanismi di funzionamento.
Da qui due possibili esiti:
- o l’adesione inconscia del volontario a questo pregiudizio, l’autopercezione di sé come elemento superfluo, incapace di rapportarsi con la globalità del contesto, e quindi il ripiegamento sull’individuo, sui tamponamento dei bisogni, sul mero assistenzialismo: direi che questa può essere l’immagine del volontario “timido” che agisce al livello meno problematico e complesso, che non ha consapevolezza completa delle proprie potenzialità e della propria specificità (con tutto il rispetto, naturalmente, per chi sceglie di fare solo questo);
- l’altro esito può essere invece quello del volontario che reagisce (apparentemente) a questa immagine distorta, che in virtù del carattere peculiare della sua presenza, estremizza il suo intervento e la contrapposizione all’istituzione, agli operatori, alle prassi; che nega la rigidità burocratica e le esigenze istituzionali, per affermare la ‘sua’ verità, la ‘sua’ esigenza di fare, le ‘sue’ priorità: in ciò riconfermando sostanzialmente il pregiudizio del volontario come fattore disturbante e disfunzionale.
In ambedue i casi (che sono ovviamente ipotetici, cioè rappresentano due possibili estremizzazioni di atteggiamento), può annidarsi nel volontario un pregiudizio uguale e contrario nei confronti dell’operatore sociale: cioè che si tratti di persona demotivata, burocratizzata, disinteressata ai bisogni dell’utente, chiusa, eretta, incasellata, ecc.
Queste ed altre distorsioni nei processi di comunicazione tra operatori e volontari hanno alla base, come per tutti i pregiudizi, una enorme carenza di conoscenza reciproca. C’è distanza, molto spesso, tra i due soggetti, indifferenza o diffidenza, incapacità di ritrovare punti di convergenza ideale e operativa, e questo non favorisce la necessaria sinergia, il ritrovarsi intorno ai bisogni e ai diritti dei soggetti per i quali si lavora,
La cultura della comunicazione e della conoscenza reciproca e il miglior modo contro gli stereotipi e il miglior metodo per approfondire la collaborazione.
2. Le prospettive della collaborazione
In questa seconda parte della relazione cercherò di individuare condizioni e percorsi per rafforzare la collaborazione tra volontariato e servizio sociale della giustizia, articolando se possibile qualche proposta operativa. In primo luogo vorrei premettere che l’analisi dei problemi fatta finora non trascura le esperienze positive di collaborazione già oggi esistenti in alcune realtà, a partire proprio dal Triveneto. Anche se non direttamente all’interno del CSSA, più spesso nell’ambito del lavoro negli istituti penitenziari, molti miei colleghi hanno un ottimo rapporto con i volontari, realizzano dei progetti in comune, intervengono a tutela del riconoscimento degli spazi del volontariato: è il caso, ad esempio, degli assistenti sociali del CSSA di Trento, che hanno un rapporto costante di collaborazione con organizzazioni del volontariato locale e che hanno prodotto, sulla base di questa esperienza, riflessioni e stimoli utili per tutti. Ma sono molte le realtà in cui vengono superate incomprensioni e difficoltà, a tutto vantaggio delle cose che insieme si possono fare, nelle attuali condizioni. Naturalmente si può fare di più e di meglio: il rapporto tra servizio sociale e volontariato necessita di momenti di studio e di analisi (come questo convegno), di progettualità, di sperimentazioni di idee e proposte concrete. A partire però - a mio avviso - da alcune condizioni di base sulle quali si dovrà lavorare in futuro, da parte degli operatori e dei volontari.
a) Per quanto concerne i CSSA, è necessaria una ridefinizione del modello professionale e organizzativo dei servizio, che lo renda più duttile, più elastico, più flessibile, che configuri i CSSA come momento di raccordo e di connessione dinamica tra le politiche penali e le politiche sociali.
Questo significa recupero dalla vocazione professionale dei Centri, resistenza alle indebite alterazioni delle loro funzioni, agli automatismi, alla burocratizzazione; significa rilancio di uno stile di partecipazione e di democrazia interna, come necessità funzionale del servizio, significa ancora maggiore apertura all’ambiente esterno e al contesto sociale, comunicazione e scambio costante con il territorio e con le forze che in esso operano. E questo chiama in causa competenze e capacità di gestione complessa dei CSSA da parte dei direttori, così come maggiore sensibilità, attitudine al lavoro di rete, affinamento dell’approccio metodologico da parte degli operatori sociali. In un simile modello di servizio, che il nostro Coordinamento persegue come obiettivo prioritario (vedi il Progetto obiettivo del CASG), possono e debbono trovare spazio i rapporti di collaborazione con gli organismi del volontariato, il riconoscimento del loro spazio operativo nell’ambito delle misure alternative, in una prospettiva di integrazione e di reciproco rispetto delle specificità.
Sono convinto che i CSSA non possono che trovare giovamento dall’intensificazione dei rapporti con il territorio, dove andrebbero a collocarsi come polo di coordinamento di tutti gli interventi trattamentali esterni al carcere e di tutti i soggetti che ne sono interessati (regioni, enti locali, servizi territoriali, privato sociale, comunità).
b) Per quanto riguarda il volontariato penitenziario vorrei indicare due prospettive sulle quali lavorare, che mi sembrano particolarmente importanti.
- Formazione: l’importanza della formazione per l’azione volontaria è ormai un fatto assodato, di cui lo stesso volontariato è diventato sempre più consapevole. Attraverso la conoscenza delle problematiche e del contesto in cui si opera, il volontario ha la possibilità di andare oltre il livello immediato, diretto, dell’intervento, per farsi soggetto di processi di educazione alla solidarietà e di analisi/intervento sui fattori sociali, ambientali da cui il problema del singolo scaturisce. Nel settore penitenziario l’importanza della formazione è irrinunciabile, non solo per la conoscenza tecnica delle leggi, delle prassi, dei meccanismi di funzionamento delle istituzioni, delle diverse competenze che vi si intrecciano, ma perché il penale è il contenitore terminale di un coacervo di problemi sociali, il luogo dove convergono contraddizioni relative ai processi economici e culturali, l’imbuto dei fallimenti del lavoro sociale sul territorio. Perciò operare in questo settore presuppone una conoscenza complessa, non superficiale, depurata da spiegazioni comportamentistiche e da interpretazioni moralistiche.
- Coordinamento e organizzazione dell’intervento: un’opera di volontariato in un contesto difficile e particolare come quello penitenziario non può fare a meno di un minimo di coordinamento, di programmazione e di verifica, sia a livello locale, sia a livello nazionale. Questo metodo di lavoro può proiettare il volontariato verso un’azione più incisiva, più efficace, ma soprattutto ad ampio raggio, che consideri sia il momento detentivo, sia l’esecuzione delle misure alternative, sia la fase del reinserimento. Recuperare una visione complessiva dell’esecuzione penale è fondamentale, per le cose che ho detto prima.
Credo che a livello nazionale, un organismo come il SEAC possa costituire un riferimento importante per tutte quelle esperienze di volontariato locale che magari stentano a superare una dimensione angusta dell’intervento.
Per concludere, cerchiamo di definire - senza alcuna pretesa di esaustività - alcune ipotesi di collaborazione tra volontariato e servizio sociale, nel settore delle misure alternative al carcere. Si tratta di indicazioni molto generali, che certamente avranno già trovato attuazione in alcuni contesti locali, ma che occorre potenziare.
Rispetto al carcere, che isola il detenuto dal suo normale contesto di vita e di relazione, la misura alternativa restituisce il soggetto ad una rete di rapporti e di interessi che vanno dalla famiglia, al lavoro, al contatto con i servizi, alle altre opportunità di inserimento sociale. Quindi qualsiasi intervento in questo ambito necessita di un approccio non più prevalentemente individuale, ma ambientale, che tenga conto di tutti gli elementi del contesto.
Un approccio operativo che mi sembra particolarmente appropriato a integrare positivamente il ruolo degli operatori è la presenza del volontariato (e di altri soggetti pubblici o privati), è il lavoro di rete, che consiste in estrema sintesi, in un’opera di attivazione, organizzazione e integrazione delle risorse formali e informali necessario per far fronte ai bisogni del soggetto. In questo modello operativo, l’assistente sociale potrebbe fungere da catalizzatore delle risorse, da attivatore di quelle esistenti o da stimolo per la costituzione di nuove reti sociali, e il volontariato troverebbe il suo ruolo più congeniale nell’ambito di un lavoro concreto intorno al soggetto e al suo mondo, nella costruzione di reticoli di micro-solidarietà, relazioni, occasioni di vita e di risocializzazione, opportunità di lavoro e di ricostruzione del ruolo sociale dell’individuo.
Se questa può essere una indicazione di metodo (non l’unica, ma una tra le possibili), quali sono le funzioni che il volontariato, in raccordo con gli operatori sociali, potrebbe svolgere nel settore delle misure alternative, mantenendosi fedele al suo ruolo non sostitutivo ma integrativo (in sostanza, le cose da fare)?
Identificherei tre ordini di funzioni:
a) ogni intervento parte dall’individuo, dai suoi bisogni, dai suoi diritti, nel contesto in cui è inserito: perciò la prima funzione sarà certamente una attività di aiuto e di sostegno, di presa in carico della situazione problematica, nelle sue varie sfaccettature personali, familiari, ambientali.
La misura alternativa può determinare nel soggetto un momento di spaesamento, di difficoltà a confrontarsi nuovamente con ruoli e responsabilità sociali, dopo la parentesi detentiva; oppure sottopone la persona ad uno stress quotidiano, a volte ad un pesante tirocinio di vita disciplinata (pensiamo alla semilibertà), scandito rigidamente da orari, prescrizioni, divieti; oppure ancora, manca di quelle opportunità e di quelle risorse sociali, lavorative, culturali, che fanno della misura alternativa un momento di reale risocializzazione.
La possibilità per il soggetto di fare riferimento agli operatori sociali, per gli aspetti più professionali della presa in carico e dell’esecuzione penale, e su persone o gruppi di auto e mutuo aiuto, caratterizzati da uno stile volontario e non professionale, allargherebbe la gamma di relazioni e di risorse, e quindi la buona riuscita della misura alternativa, il raggiungimento delle sue finalità.
Il soggetto, i suoi problemi, il suo contesto, rappresentano quindi un primo momento di collaborazione e tra servizio sociale e volontariato.
b) un secondo tipo di funzioni potrebbe riguardare le necessità relative all’accoglienza e all’ospitalità di persone in misura alternativa, all’interno di nuclei familiari, strutture, organismi, attività lavorative gestite dal privato sociale. Ricordiamo che a volte, la possibilità di disporre all’esterno di un lavoro, di una struttura ospitante, di un gruppo di riferimento è per molti detenuti l’unica possibilità di chiedere e ottenere la misura alternativa (ad esempio gli stranieri, le persone che non hanno un nucleo familiare, i soggetti che conducono una vita marginale, etc.).
Qui la presenza del privato sociale è già molto rilevante: essa va affinata nelle modalità di rapporto e di collegamento operativo con iservizi dell’amministrazione penitenziaria; durante la misura alternativa, è fondamentale che gli operatori volontari mantengano con il servizio sociale un contatto costante, che offre molte occasioni di collaborazione.
c) La terza funzione che vorrei indicare riguarda un aspetto ancora poco sviluppato nel settore penitenziario: l’animazione sociale e culturale sui temi del carcere, della riforma, delle misure alternative. Nessun intervento sociale ha futuro se non si inserisce in una dimensione collettiva, di crescita della consapevolezza e della partecipazione. Il volontariato in questo senso è già un’espressione della società civile, e proprio per questa sua particolare collocazione nel sociale può fare molto per il consolidamento di una cultura della solidarietà, della partecipazione, del coinvolgimento a partire dai problemi sociali.
Dare maggiore spazio a questa funzione - che io definirei ‘politica’ - significa riportare al sociale, al patrimonio della comunita l’esperienza pratica, renderla comprensibile e ripetibile. Coinvolgere anche gli operatori dei servizi in questa attività di animazione culturale e sociale ècertamente uno stimolo che contrasta con i processi di burocratizzazione e di allontanamento dalla dimensione collettiva, che spesso insidiano i servizi pubblici.
Dunque, mi sembra che le prospettive di collaborazione tra volontariato e servizio sociale siano oggi più che mai aperte e ricche di possibilità e di sperimentazione. Incontrarsi per parlarne è già un fatto importantissimo, che spiana la strada a difficoltà e resistenze e che predispone al rapporto e alla sinergia.
Lavorare nella giustizia presenta certo molte difficoltà, per tutti, ma oggi è più che mai necessario impegnarsi per una prospettiva di liberazione dell’individuo e della collettività dal paradigma punitivo del carcere, per fare strada a pene più flessibili e adeguate alla complessità del vivere sociale.
Con una consapevolezza di fondo: che sia gli operatori sociali, sia i volontari, con i loro ruoli specifici, sono accomunati da una identica cultura e da una prassi condivisa: la priorità della persona, dell’utente, dei suoi bisogni e dei suoi diritti; che significa: la ricerca delle risorse e delle possibilità affinché quei bisogni abbiano una risposta, e quei diritti una possibilità di tutela e di esercizio.
VOLONTARIATO PENITENZIARIO QUALE
ESPRESSIONE DI UNA SOCIETA' SOLIDALE.
Livio Ferrari
Coordinatore nazionale SEAC
Nell’ultimo decennio il volontariato, nell’area dei servizi, ha ottenuto un riconoscimento e un’attenzione mai ricevuti prima. Sarebbero da rilevare diversi aspetti di questa valorizzazione, se strumentale o meno per esempio, ma sono convinto che sia importante soprattutto notare la maggiore attenzione e considerazione che la società esprime nei confronti di chi fa volontariato. Nella mia analisi desidero far prevalere, evitando sottilizzazioni di sorta, la convinzione che tutto ciò costituisca un fatto positivo.
Nel “calderone” dell’intervento spontaneo si inserisce quello del volontariato penitenziario o più in generale impegnato nel settore giustizia, guardato spesso con diffidenza, relegato troppe volte al ruolo di cenerentola rispetto ad altri settori di volontariato.
Anche nella solidarietà ci sono discriminanti e nella scala dei valori del volontario ideale troviamo ai primi posti chi aiuta persone malate, deficitarie e/o portatrici di handicap. Con un distinguo per l’assistenza ai malati di aids, soggetti ancora bollati dai preconcetti relativi alla presunta causa dell’infezione (droga, omosessualità, vita sregolata, etc.). L’aiuto ai tossicodipendenti e alcolisti trova credito nella società se pensato in funzione dell’entrata in comunità, vista come “lavatrice”, luogo privilegiato dove chi ci passa può ritrovare verginità sociale e incominciare la cosiddetta esistenza normale. Anche la malattia mentale non è mai stata ben digerita, e pur se viene maggiormente tollerata che in passato, è sempre guardata con diffidenza e lontananza.
Nei confronti della devianza, invece, assai alto è il tasso di repulsione, paura e diffidenza che la circonda. Perché richiama nello stereotipo la figura del delinquente che minaccia la proprietà e l’incolumità (beni primari).
A margine di questo breve excursus risulta chiaro come la cultura che attraversa i nostri anni, in definitiva, non dà troppo spazio alla speranza, ma esprime concetti di una solidarietà fatta dì parole che non trovano poi verifica nei fatti (lontananza).
Per l’esperienza, invece, che è patrimonio comune di chi da tempo si muove nel campo del disagio sociale, è oltremodo evidente come nessuna società può permettersi di sviluppare esclusivamente percorsi tendenti alla tutela e alla protezione della maggioranza dei cittadini, escludendone altri, anzi relegandoli in luoghi di parcheggio dove l’interesse principale, se non esclusivo, è quello di renderli inoffensivi. Un atteggiamento di questo tipo, ancor prima che emarginante, è dannoso e pericoloso per la società tutta.
E’ indiscutibile altresì che l’azione di tutela della collettività attraverso alcune forme di repressione, non può escludere di fatto quella di aiuto, sostegno e opportunità. Infatti la mano tesa è il principale segno di riconciliazione e speranza, è un primo passo verso la rimozione della causa e del superamento del disagio, della coscienza del danno se non proprio della riparazione. Tutto ciò per dare la possibilità di imboccare un percorso di reinserimento dignitoso nel territorio per ogni persona che ha commesso un reato.
Il volontariato penitenziario l’ha compreso appieno da sempre e seppur osteggiato, oggi più di ieri, tenuto nella impossibilità di contrapporsi ad una politica di gestione della pena che privilegia la custodia e delega a sparuti operatori dello Stato (educatori e assistenti sociali) tutta l’azione del trattamento, nella quale si inserisce il volontariato a pieno titolo, con pari dignità e con idee proprie ed interventi, soprattutto sul territorio.
Come esiste una situazione insostenibile per i detenuti nelle celle delle carceri per via del sovraffollamento, della mancanza di operatori che si adoperino per una maggiore attuazione delle misure alternative, così siamo veramente ai limiti dell’umana sopportazione anche per i volontari, su tutto il territorio nazionale. Sono sempre più gli istituti in cui si operano azioni di ostacolo all’intervento del volontariato, che sono a dir poco inverosimili. Possiamo noi richiamare talune indicazioni generali del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, non c’è verso. Non vengono tenute in considerazione neppure le linee di indirizzo che il Ministero di Grazia e Giustizia ha emanato in materia dell’intervento volontario nell’ambito dell’esecuzione penale. Purtroppo non si è potuto sinora riscontrare molto interesse da parte dei soggetti preposti nell’applicare detti indirizzi. A vent’anni dalla riforma ancora non è stata compresa l’azione del volontariato che opera nei confronti delle persone detenute, che è ossigeno per tutta la società.
Tutti sono chiamati a concorrere ad una maggiore vivibilità, ma a nessun istituto penitenziario è stata firmata una delega in bianco da parte dei cittadini, i quali esprimono attraverso i volontari quella funzione di presenza, interesse e coinvolgimento, anzitutto, e se si vuole di verifica, di quanto si attua nell’ambito del settore giustizia.
Se fino agli anni settanta certi luoghi delle nostre città sono stati volutamente dimenticati (leggi: manicomi, carceri, case di riposo), successivamente il senso di responsabilità e la coscienza collettiva hanno prodotto un processo di riappropriazione di questo rimosso.
Il carcere, tra tutti questi luoghi, è quello più duro da scalfire. Ha tutt’ora barriere di invalicabilità che non si è riusciti ad abbattere, soprattutto per le paure che ancora questo posto evoca e anche per la risposta di sicurezza che detiene.
Perciò diventa lampante l’importanza dell’azione del volontariato, che non può fermarsi a quanto conosciamo del suo operare, ma deve dare un contributo di idee ed esperienza anche nella discussione che si sta svolgendo nel nostro Paese sulle problematiche relative alla depenalizzazione di alcuni reati, alle misure alternative, in parole povere al “mero carcere”. Infatti la reclusione non è certo l’unica e perenne risposta verso chi commette un reato, come è ampiamente dimostrato dalla percentuale di recidiva che si riscontra.
C’è maggiore consapevolezza del proprio ruolo di volontari impegnati nel settore giustizia, si sta rendendo possibile anche un processo di confronto e unitarietà di intenti attraverso l’attuazione di una conferenza permanente del volontariato impegnata in questo ambito. Il volontariato può essere perciò parte anche di quel rinnovamento della partecipazione democratica alla vita politica e istituzionale. In sostanza, i volontari penitenziari stanno passando da soggetti sociali che in questi anni hanno difeso e aiutato le minoranze, le persone più deboli e più a rischio, e organizzato esperienze e pratiche complementari ai margini delle decisioni, a soggetti che attraverso una propria elaborazione e conseguente politica sociale si pongono come obiettivo quello gravoso e importante: di partecipare alla rifondazione delle scelte che saranno fatte nel nostro Paese partendo dal sociale.
IL VOLONTARIO NEL SISTEMA GIUSTIZIA.
dott. Luciano Tovazza
Segretario Generale della Fondazione Italiana per il Volontariato
Butros Ghali in un discorso in marzo a Copenaghen ci ha detto che sono finiti i quaranta anni del terrore atomico, ma la bomba dinanzi a cui ci troviamo è la bomba M.
Il problema dei prossimi anni non è più la povertà, ma individuare i meccanismi dell’esclusione sociale.
Occorre domandarci, in questo settore che è uno dei settori dell’esclusione sociale, il carcere, se per caso ci siamo chiusi anche noi nello spazio della beneficienza, dell’assistenza, delle opere di carità o se stiamo operando per contribuire tutti insieme ad affrontare i sistemi e i meccanismi dell’esclusione sociale.
Sarebbe ben triste finire la nostra vita passando anche per cretini e alla fine concludere che non è servito né alla società civile né alla società ecclesiale.
E’ necessario assumere un atteggiamento che La Pira definiva di “serena inquietudine”, cioè domandarsi se quello che facciamo ha avuto finora un senso e, se per caso non l’avesse avuto abbastanza, avere il coraggio di correggere la visione, ma soprattutto di parlare con estrema chiarezza ai giovani.
Mitterand prima di ritirarsi, ha fatto un formidabile discorso domandando se lasceremo l‘Europa in mano a meccanismi in grado di travolgere tutti i non tutelati.
Non sono parole di un asceta, sono le parole di un Mitterand morente di cancro che si domanda, alla fine della sua carriera politica, se la conclusione deve essere un’Europa che in questo momento ha nel suo cuore 31 milioni di disoccupati (di cui 3 milioni italiani), se vogliamo ancora occuparci di problemi residuali o se vogliamo tutti insieme occuparci di problemi essenziali.
Vale la pena insieme di inquietarci serenamente su una serie di riflessioni rimanendo amici nella diversità di opinioni che ognuno di noi assumerà.
La capacità di essere unità nella diversità fa la grandezza della cultura.
Il problema è guardare in prospettiva i prossimi cinque anni e capire storicamente qual è la sfida a cui siamo dinanzi.
Prima riflessione: quello vigente non è assolutamente un “sistema” di giustizia (dico provocazioni non verità), ma è un abito giuridico fuori moda rispetto ai diritti costituzionali, umani e di cittadinanza.
Molte volte i cittadini italiani devono ricorrere all’estero per ottenere giustizia, segno che il nostro non è un sistema di giustizia.
Un complesso di norme ha la dignità di un sistema quando si occupa delle persone, dei detenuti, delle loro famiglie, del personale (direttivo e agenti), degli operatori pubblici e privati (volontariato).
Deve essere modificato in una prospettiva non violenta, ma dialettica.
Se perdiamo questo senso della profezia siamo fuori dalla storia perché rischiamo di fare il gioco dei potenti di questo momento, che desiderano che noi oriamo occupandoci di servizi carcerari.
C’è una speranza anche tra i potenti della seconda Repubblica: che ci sia un gruppo di cretini che dispongono il proprio cuore a fare opere di carità all’interno delle carceri, perché nulla cambi nelle carceri, perché il loro apporto si esaurisca nel perfezionamento dei servizi carcerari, perché questo non metta in discussione l’attuale sistema della giustizia.
Allora ci deve essere una prospettiva sulla quale misurarci!
Spero sia passata la stagione di quel volontariato velleitario che pensa da solo di cambiare la realtà essendo esemplare.
Noi abbiamo bisogno di pensare a cinque anni in avanti, ma tenendo i piedi per terra.
La prospettiva non è primariamente la lotta dentro il carcere, ma il cambiamento delle cose intorno al carcere.
Questa mi pare la vocazione del volontariato assieme alle altre forze sociali per i prossimi anni per trasformare questo sistema di non giustizia in un sistema di giustizia.
Seconda riflessione: deve esserci un volontariato che moltiplica la sua presenza mobilitando l’opinione pubblica, non discutendo con il direttore del carcere, perché questo non cambierà mai se non avrà contro un’opinione pubblica che lo condanna per i suoi atteggiamenti.
Oggi, credetemi, può definirsi uomo qualsiasi uomo che liberatosi dalla sua visione familiare, nazionale e di fede si pone a servizio di un altro uomo.
La vocazione del volontariato è di modificare il sistema mediante la collaborazione con i professionisti (stabilire un rapporto con avvocati, magistrati, agenti, assistenti sociali, ecc.), occorre mobilitare queste componenti.
Il mutamento è legato alla capacità di lavorare attorno al carcere (alleanza con i sindacati per il lavoro post-carcerario, con cooperative, associazioni, patronati). Il volontariato deve essere capace di creare supporti sapendo che chi si isola non cambia nulla, bisogna mettere in atto una strategia delle alleanze.
E’ importante servirsi dei mass media. Quando la TV si appropria di un problema, il minimo dell’ascolto sono 600.000 persone; pensate cosa ci metterebbe un’associazione di volontariato a contattare tante persone.
Non bisogna trascurare i giornali e le TV locali, occorre entrare in un rapporto di rete con le autonomie locali.
Chi vuole lavorare oggi in un clima di separatezza è perduto.
Occorre denunciare la tendenza a parlare di solidarietà senza averne al nostro interno, tra le varie associazioni di volontariato.
Terza riflessione: il volontariato dei prossimi anni deve accentuare tre dimensioni: l’educazione (occorre vincere la sfida educativa che la scuola, la parrocchia, i vari movimenti hanno abbandonato, sembra che ci sia una vergogna ad educare, come se si trattasse di una violazione del soggetto), la tutela dei diritti e la politica.
Un volontariato che voglia essere all’altezza del futuro deve potenziare questi tre aspetti.
Non bisogna distinguere tra teoria e pratica, ma modificare il concreto.
Per quel che riguarda il volontariato penitenziario deve concentrarsi su queste finalità:
1- sottrarre più soggetti possibile all’incontro con la giustizia, aprendo il settore della prevenzione. Vedere nella propria città dove nasce il disagio e la delinquenza.
2- impedire al sistema di creare delinquenti (carcere come università della delinquenza). Impegno nel minorile dove avviene la trasformazione drammatica dal fatto isolato alla nascita del delinquente.
3- aiutare la giustizia a non restituire dei detenuti alla criminalità, cioè aiutare chi esce dal carcere a non ricadere nel giro.
4- supportare il tessuto familiare nel momento della debolezza, perché la famiglia non si sfasci (in Sicilia gli unici che si occupano della famiglia del carcerato sono le cosche e l’unico modo per battere la mafia è batterla sul territorio).
Tutti i pensieri di chi è dentro sono per la famiglia e, toccando la famiglia, si tocca chi è dentro.
5- la rimozione della cause, bisogna presentarsi come un volontariato organizzato con associazioni coordinate. Occorre cercare di capire quali sono i meccanismi dell’esclusione sociale: la disoccupazione, l’esclusione dalla sanità, l’esclusione dall’abitazione, l’esclusione dai trasporti.
Il fenomeno carcerario non va letto all’interno del fenomeno generale, altrimenti c’è il rischio di scoprire alla fine della vita che, con le migliori intenzioni, non siamo serviti a cambiare le cose, ma abbiamo servito i forti, felici che un gruppo si occupasse del particolare perché intanto loro facevano gli altri affari.
Dobbiamo domandarci se stiamo cambiando il tessuto o se stiamo mettendo la naftalina sull’esistente.
Le ore che metto a disposizione servono a cambiare le relazioni sociali o solo a contenere il dolore perché non scoppi?
Paolo VI diceva: “Il primo gradino dell’amore non è la carità, ma la giustizia”. Oggi invece mi sembra che molti gruppi di volontariato, non è il caso di quello carcerario, non fanno altro che ripetere in ritardo cose già fatte dallo Stato.
VOLONTARIATO, SERVIZIO SOCIALE E DIPARTIMENTO
DELL'AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA:
QUALE POSSIBILE RAPPORTO?
dott. Celso Coppola
Segretario della Commissione Nazionale del Ministero di
Grazia e Giustizia per i rapporti con le Regioni e gli Enti Locali
Sono molto grato anch’io agli organizzatori di questo convegno per aver posto quest’anno alla nostra attenzione questo tema, perché, come è stato detto anche ieri, è un tema che può sembrare marginale, ma che in realtà è molto importante.
Io credo che, già dalla discussione di ieri, ma soprattutto da quello che verrà detto oggi, emergerà in tutta la sua chiarezza il perché di questa affermazione, il perché questo rapporto è importante.
Il tema della discussione di oggi è abbastanza ampio, riguarda il rapporto tra volontariato e servizio sociale, inquadrato, però, nell’insieme dei rapporti che il volontariato ha con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nel suo complesso, di cui i Centri di servizio sociale sono solo una parte, una piccola parte.
E’ importante che in tutta questa discussione noi ricordiamo sempre queste distinzioni; una cosa è il volontariato penitenziario, una cosa è il volontariato polivalente che tra le sua varie attività si occupa anche del settore penitenziario, una cosa è il volontariato di carattere generale, che magari anche non si occupa di penitenziario, ma che agisce comunque sul territorio.
Sono tutte distinzioni che nel descrivere i rapporti dobbiamo tener presenti, così come il servizio sociale, sia per adulti, sia per minori, è, sì, un servizio sociale professionale, come è stato ben precisato ieri, ma è anche, a sua volta inserito nell’istituzione, nel Ministero di Grazia e Giustizia, però contemporaneamente non è l’istituzione stessa, non è che rappresenti tutta l’istituzione, cioè sono rapporti piuttosto complessi, sia nel campo del volontariato, sia nel campo del servizio sociale, molto intricati, secondo le parti e gli argomenti che si vogliono discutere.
Quindi sono distinzioni che è bene precisare, da poter tenere presente.
Allora, il primo problema che ci si pone è cercare di individuare la natura di questo rapporto di cui parliamo, tra volontariato da una parte, e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e in esso del Servizio sociale. Che natura deve avere o può avere questo rapporto?
E’ evidente che ci possono essere vari tipi di rapporto, possiamo avere rapporti spontanei, occasionali, rapporti formali e informali, rapporti funzionali, rapporti stabilizzati, rapporti istituzionali.
In fin dei conti già oggi esistono rapporti molto frequenti tra il volontariato e i vari centri di servizio sociale, magari a volte combattuti e pieni di problemi, ma anche molto ricchi. Potremo anche, al limite, dire di trovarci soddisfatti e chiudere qui il nostro discorso.
In realtà sappiamo tutti che questi rapporti non ci soddisfano per motivi che ora è inutile richiamare e che quello che vogliamo è un rapporto chiaro, definito, garantito, istituzionale.
Ciascun aggettivo ha un suo significato.
Vogliamo proprio uscire dall’occasionalità che ha contraddistinto il rapporto in questi anni dalla estemporaneità, dalla precarietà, dalla discrezionalità; cause di conflittualità, incertezza e diffidenze.
Vogliamo uscire da questo e avere un rapporto istituzionale. Mi rendo conto che per motti volontari stabilire un rapporto con le istituzioni può sembrare quasi un controsenso, perché è proprio della cultura del volontariato rifuggire da ogni sistematicità nei rapporti con le istituzioni, conservare costantemente una propria libertà d’azione.
Un rapporto istituzionale potrebbe essere considerato un limite all’essenza stessa del volontariato.
Questo è un tema appassionante, molto discusso durante l’approvazione della legge 266 sul volontariato.
Io vorrei dire che la libertà del volontariato è da individuare essenzialmente nei contenuti e nelle modalità dell’azione. Gli accordi con le istituzioni non devono incidere su tali sfere, ma solo creare le migliori condizioni per l’esplicarsi dell’attività del volontariato. In una società complessa come l’attuale, l’azione isolata ha scarse possibilità di affermarsi.
Stabilire una rete di relazioni e rapporti non può che risultare vantaggioso sia per il volontariato che per le istituzioni, creando collaborazioni e sinergie. Non bisogna poi troppo spaventarsi di questo timore di rapporti istituzionali e rapporti volontari.
Tutti noi, nei diversi momenti della nostra vita, giochiamo dei ruoli istituzionali e volontari.
Non dobbiamo irrigidirci, non siamo due realtà, due specie diverse, esiste un continuo intreccio.
Io penso che stabilire tra volontariato e Ministero di Grazia e Giustizia un rapporto stabile, regolamentato, istituzionale, sia quanto in realtà desideriamo nell’interesse di entrambi, soprattutto nell’interesse di fondo: la condizione delle persone che entrano nel circuito penitenziario.
Un altro punto importante, una volta chiarita la natura del rapporto, è definire il fine di tale rapporto istituzionale. Perché due realtà così diverse tra loro, Ministero e volontariato, devono stabilire un rapporto?
La risposta si articola in due livelli; il primo di carattere programmatico organizzativo si rifà alla legislazione vigente: noi abbiamo una serie di leggi che prevedono l’attività di volontariato nel campo istituzionale, innanzitutto la legge 354 del ’75 con le modifiche successive, e poi il DPR 616 e tutte le leggi che attribuiscono ad enti locali competenze in materia di pena in quanto gli enti locali possono essere considerati delle realtà esponenziali anche della società civile.
Vedi Legge 142 sulle autonomie locali.
Vedi Legge 833 sugli stupefacenti, che amplia il ruolo dei Sert.
La legge quadro sul volontariato prevede esplicitamente accordi tra associazioni di volontariato e lo Stato (convenzioni).
L’insieme di queste leggi ci porta a considerare utile e positivo un accordo su materie di comune interesse al fine di facilitare i rapporti, creare sinergie, e nello stesso tempo divisione dei compiti e coordinamento delle attività. Questa è la prima motivazione che ci porta a chiarire il fine: organicità dell’uso di queste disposizioni legislative.
Il secondo livello di risposta è suggerito dalla Costituzione e dalla legge quadro sul volontariato. Entrambi i testi sanciscono la pari dignità del volontariato in quanto esponente della società civile, rispetto alle istituzioni statali.
La legge quadro 266, in attuazione del dettato costituzionale, costituisce una autentica rivoluzione rispetto alle nostre prassi consolidate.
Pari dignità significa, per quanto concerne la pena, che una delega che è secolare al potere esecutivo in questo campo non può più essere considerata sufficiente per la gestione del problema.
La società civile e il volontariato possono e debbono entrare di pieno diritto nell’impostazione, programmazione e gestione degli interventi di prevenzione, trattamento e reinserimento sociale, ovviamente in accordo con le istituzioni.
Il Mistero di Grazia e Giustizia, come tanti gli altri ministeri, deve provvedere a precisare le modalità i tale rapporto.
Tutto ciò significa che l’attività di volontariato non deve poi essere complementare, strumentale, subalterna a quella dello Stato, ma deve avere una piena dignità di interlocuzione.
La pena è una questione troppo importante per essere affidata ai soli apparati giudiziari e penitenziari.
La società civile deve entrare in pieno in questa gestione, può portare un contributo qualitativamente diverso, necessario per dare pienezza all’intervento in campo penale.
Il comportamento antisociale e la conseguente pena coinvolgono, infatti, valori e pulsioni profondamente radicati nella cultura di una società e questa non può delegare “in toto” alle strutture giudiziarie e amministrative responsabilità che sono anche e soprattutto sue.
Si tratta di una grossa limitazione passata quasi senza accorgercene per entrambi gli interlocutori interessati. Non sarà facile per lo Stato superare il proprio tradizionale potere assoluto (autarchia) in questo campo e neanche per il volontariato assumere livelli di impegno così complessi.
E’ questa una responsabilità che può fare paura a tutti, è più facile avere compiti ben definiti e parziali che un impegno a essere corresponsabili.
In una società complessa come l’attuale lasciare allo Stato ogni responsabilità in materia significa negare la stessa complessità del problema, tendere alla sua semplificazione, che poi si risolve nel solo rispetto delle esigenze di difesa sociale, nella burocratizzazione dell’intervento e quindi nella custodia carceraria.
Anche l’intervento della società civile e del volontariato si riduce a mera attività assistenziale. Se manca l’intervento della società civile prevale la difesa sociale, si perde tutta la “ricchezza” del problema della devianza, della conflittualità sociale della pena.
La Commissione nazionale per i rapporti tra il Ministero di Grazia e Giustizia e le Regioni ha approvato nel marzo del ’94 degli indirizzi in materia di volontariato molto significativi e che possono fare da base per un ulteriore sviluppo.
Riassumendo: la natura del rapporto tra istituzione e volontariato è istituzionale; il fine è duplice, di ordine organizzativo e di ordine culturale e politico.
Problema: come si passa da giuste affermazioni di principio ad una gestione quotidiana di questo rapporto coerente con le affermazioni?
Si apre un processo difficile e prevedibilmente lungo perché occorre innanzitutto la volontà politica di attuare la legge 266 sul volontariato uscita nel ’91, soprattutto sul come una struttura statale possa dialogare sul piano paritario con strutture volontarie.
Occorre l’applicazione concreta della legge.
Tecnicamente e organizzativamente il problema è difficile perché occorre mettere in comunicazione due realtà molto diverse: l’istituzione con le sue leggi, regolamenti, prassi, cultura e spesso anche burocrazia e, dall’altra parte, il sociale con il suo pluralismo, eterogeneità, il muoversi emotivo e il continuo mutare, una specie di magma ribollente.
Come se un ingegnere dovesse gettare un ponte tra uno scoglio roccioso e un mare ribollente di onde.
Inoltre è un tema nuovo per la società italiana abituata ad uno stato centralista.
In particolare nel settore giudiziario è necessario che si crei un modello chiaro per la comunità comprendente le diverse esigenze dettate da punti di vista diversi, pur tutti legittimi: da un lato il garantismo-difesa del diritto dell’individuo, dall’altro la difesa sociale-sicurezza della comunità, dall’altro il trattamento e il reinserimento-riconoscimento delle possibilità di un cammino della persona.
Occorre elaborare una politica penitenziaria che contemperi queste esigenze, che non sia sbilanciata in un senso o nell’altro.
Occorre la riforma di alcune parti del codice di procedura penale e soprattutto del codice penale, risolvendo certe antitesi, ad esempio tra la pena certa e la pena flessibile, adeguata alla evoluzione dello personalità del condannato. Nella pena certa le misure alternative in fase penitenziaria non esistono più, mentre sono fondamentali nella pena flessibile.
Senza lasciarci spaventare dalle difficoltà, credo che per raggiungere l’obiettivo, il rapporto istituzionale tra ministero e volontariato (tutto questo discorso comprende anche i minori), dovremmo agire attraverso due binari: uno esterno ed uno interno.
Azioni all’intero. Migliore conoscenza della situazione di questi rapporti, più scientifica e più documentata, regione per regione (incontri, piccole ricerche, raccolte di documentazione), in modo da creare migliore conoscenza tra noi.
Porre i rapporti su un piano tecnico più che emotivo e personale.
Chiara e precisa definizione dei due tipi di interventi, delle rispettive competenze, dei ruoli, delle modalità di collaborazione e di integrazione.
Con questo lavoro potrebbero essere fugati i motivi di incertezza, diffidenza, conflittualità, possiamo invece rivelare le sinergie positive in entrambi i settori.
Siamo entrambi vittime di una situazione di appiattimento e compressione delle potenzialità.
Altro aspetto interno: individuazione e definizione della comune cultura sul problema penitenziario, cultura centrata sul valore e la dignità della persona, sul rispetto dei suoi diritti, sul soddisfacimento dei suoi bisogni, sulla necessità di credere alla possibilità di cambiamento della persona e quindi sulla pena flessibile; sulla necessità di offrire alle persone entrate nel circuito penitenziario opportunità di reinserimento sociale; nel ritenere indispensabile sia eliminata nella vita in carcere ogni violenza e ogni abuso; non ritenere che l’uso del carcere come unica e centrale forma di pena debba essere superata depenalizzando determinati reati e aumentando le misure alternative (tra l’altro una persona in misura alternativa costa allo Stato 1/10 rispetto al detenuto).
Nel ritenere che i disagi e conflitti sociali non possono essere risolti con la separazione, ma con interventi di reinserimento.
Dobbiamo avere la consapevolezza di essere tra le poche forze del nostro Paese che lavorano per la riaggregazione sociale e dovremmo esserne fieri.
Riaggregazione sociale anche per la criminalità mafiosa, almeno la manovalanza.
E’ una cultura preziosa nell’Italia di oggi, travolta da una ondata di individualismo e consumismo.
Dobbiamo chiarire meglio questa cultura e soprattutto esserne consapevoli.
Occorre definire le conseguenze di tutto questo nel regime penitenziario, dobbiamo parlare, essere presenti; il servizio sociale deve divenire più flessibile, il volontariato deve ampliare i suoi rapporti.
Azione per linee esterne: innanzitutto sviluppare i rapporti con enti locali e regioni, non pensare di poter lavorare da soli.
E’ importante conoscere la legislazione, sfruttarne le possibilità, inserirsi nei progetti. Attenzione maggiore alle attività degli enti locali, impulso alla stipula di protocolli d’intesa tra regioni e Ministero di Grazia e Giustizia, perché così è più facile per il volontariato inserirsi nei progetti.
Impulso alla stipula di protocolli locali (tra USSL, comune e volontari, CSSA); impulso alla istituzione delle commissioni regionali (sono il parallelo delle commissioni nazionali a Roma), dovrebbero esserci in ogni regione per riunire tutti i protagonisti della politica penitenziaria: qui si attua la conoscenza di tutte le forze e la programmazione comune. Azione politica per il rinnovamento del dipartimento minorile, azione per la rianimazione sociale.
E’ importantissima l’attività di informazione all’esterno per diffondere una cultura alternativa al carcere e far presente i propri punti di vista.
Conclusione: non lavorare da soli, non essere isolati, trovare alleati negli enti locali, volontariato, magistratura di sorveglianza.
I rapporti devono crescere anche con gli agenti, direttori, educatori.
Occorre riformare anche la struttura del Ministero e sviluppare il volontariato affinché assuma un ruolo autonomo e politico, di presenza nella società.
Volontariato e servizio sociale sono culturalmente omogenei e stanno dalla stessa parte.
DOCUMENTO PROGRAMMATICO CONCLUSIVO.
I partecipanti al XVII Convegno nazionale organizzato dal Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario - SEAC Triveneto, tenutosi a Passo della Mendola (TN) dal 30 giugno al 2 luglio 1995, sul tema: “Volontariato e servizio sociale nel sistema giustizia: quali incomprensioni e quale collaborazione”
rilevano
che esiste un ampio spazio per lo sviluppo della collaborazione tra queste due realtà, finora limitate dalla persistente centralità della pena detentiva che polarizza praticamente ogni energia e risorsa del volontariato; al contrario un adeguato sviluppo delle misure alternative, oltre a contribuire allo sfollamento degli istituti e a migliorarne la vivibilità, può e deve offrire occasioni di stretta integrazione tra volontariato e servizio sociale, sia nel settore degli adulti che in quello minorile;
esaminata
altresì la situazione del volontariato negli istituti penitenziari rilevano come, accanto ad alcune positive esperienze di collaborazione, persistano ed in certi casi aumentino difficoltà e resistenze di ogni tipo per un pieno espletamento delle attività di volontariato;
denunciano
come, complessivamente, nell’ambito del sistema giustizia si sia ancora ben lontani dal raggiungimento della pari dignità tra strutture e servizi statali e interventi di volontariato, così come sancito dalla Legge 266/91, venendo a mancare in tal modo l’essenziale apporto della società civile alle attività di prevenzione e di trattamento e di reinserimento sociale delle persone entrate nel circuito penale;
fanno appello
al Governo e al Parlamento perché, nella situazione di crisi e di disagio sociale in cui si trova attualmente il Paese, si definisca e si realizzi urgentemente e concretamente in ogni suo aspetto una politica penale e penitenziaria non basata sulla difesa sociale e sulla carcerazioni dei soggetti in difficoltà, ma una politica di riaggregazione e di reinserimento sociale in armonia anche con gli indirizzi, a livello europeo, della recente Conferenza sui problemi sociali tenutasi a Copenaghen;
chiedono
a tutte le associazioni di volontariato di unirsi per superare lo stato di subalternità in cui versano le attività volontarie nel sistema giustizia, abbandonando definitivamente ruoli di supplenza e di puro assistenzialismo, impegnandosi in particolare “intorno” agli istituti di pena e sul territorio, per giungere a una reale dialettica con gli organi dello Stato nella gestione delle pene detentive e alternative, per la costruzione comune di una nuova politica penitenziaria conforme al dettato costituzionale;
chiedono
alle associazioni di volontariato di essere costantemente presenti in ogni occasione in cui si dibattano problemi connessi alla criminalità e alla politica penale-penitenziaria, in modo da agire in profondità sull’opinione pubblica e sui mass-media per superare stereotipi, pregiudizi e valutazioni emotive tanto diffuse nel settore;
fanno appello
agli assistenti sociali, agli operatori penitenziari, ai magistrati, agli avvocati, agli operatori dì giustizia, alle organizzazioni tutte appartenenti al terzo settore, perché si realizzi un’ampia alleanza culturale e programmatica sui temi sopra indicati e si avvii un’azione comune per il raggiungimento degli obiettivi connessi, per un Paese più sereno e più civile anche negli interventi penitenziari;
rivendicano
di essere nel loro intervento, a pieno titolo, espressione del territorio, e non intendono essere funzionali a meccanismi che fanno leva sull’esclusione sociale; si pongono nella loro azione in un’ottica di prevenzione per una sfida educativa e di tutela dei diritti.
N.B. - Questo documento è stato inviato al Ministro Guardasigilli, ai Sottosegretari del Ministero di Grazia e Giustizia, ai Direttori degli Uffici interessati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, nonché agli organi di stampa.