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IL CARCERE IN UNA SOCIETA’ CHE AUMENTA L’ESCLUSIONE SOCIALE

Una riflessione di Livio Ferrari presentata a Cagliari il 19 ottobre 2007 in occasione della Terza edizione di “Strada Facendo – I cantieri dell’abitare sociale” organizzata dal Gruppo Abele e Libera.

Desidero analizzare la questione carcere e pena non solo dal mio osservatorio, quello cioè della frequentazione continua con chi vive nei luoghi della devianza, ma anche nelle modificazioni che sono intervenute e quelle che si vanno affacciando nel mondo della giustizia, culturali e strutturali, e delle prospettive che si stanno delineando a fronte di tutto questo.

Intendo partire dalle trasformazioni della nostra società, in Italia ma anche su scala mondiale, che in questi anni sono state strettamente legate al proliferare della tecnica e che stanno allargando smisuratamente gli orizzonti della conoscenza e dell’informazione, ma purtroppo non sempre quelli della riflessione e della comunicazione.

La nostra epoca, che io definirei “del computer”, proprio per le modalità tecnico-pratiche che la contraddistinguono, è contrassegnata dal rischio terribile di radicalizzare la solitudine e di svuotare le relazioni umane di contenuti significativi. Dal rischio, cioè, di perdere la capacità di immedesimarsi nella coscienza e nella realtà delle persone, di comunicare concretamente con ogni essere umano, rispettandone e riconoscendone i desideri e i bisogni.

Ogni giorno, nella gestione della cosa pubblica e dell’economia, da troppi anni, per quelli come me che stanno invecchiando nell’illusione che migliori la qualità dell’esistenza umana, ripeto da troppi anni assistiamo al teatrino della politica che produce scelte drammaticamente lontane dalla realtà del quotidiano vivere sociale. Non voglio neanche addentrarmi granché sull’ultimo “pacchetto sicurezza”, che nel nostro Paese è ormai una consolidata abitudine che ci viene venduta da ogni Governo e ogni volta più che di un pacchetto si può parlare di “pacco”, dove si paventano sempre “reati di allarme sociale” ... e di conseguenza giù galera a piene mani ... Nell’ultimo partorito, ma per il momento stoppato, il furto, lo scippo e la rapina vengono addirittura equiparati a reati di mafia, si intende mettere in carcere i graffitari, i lavavetri, i venditori ambulanti ed espellere i rom, si vende una insicurezza che è diametralmente opposta da quella vera e reale. Una grossa fetta degli schieramenti politici stanno giocando con la gente una partita sporca, perché vanno a toccare in modo distorto e strumentale le forme della convivenza di una società sempre più complessa.

La novità curiosa di questa miscellanea di misure è che all’interno di questo famigerato “pacchetto sicurezza” al comma 7 dell’art. 20 si recita: “I provvedimenti di allontanamento dal territorio nazionale per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato sono adottati dal Ministro dell’interno con atto motivato, salvo che vi ostino motivi attinenti alla sicurezza dello Stato, e tradotti in una lingua comprensibile al destinatario, ovvero in inglese”, noi non lo sapevamo ma sembra che dopo l’italiano l’inglese diventa la nostra seconda lingua.

Comunque questo non vuole essere un discorso moralistico, è piuttosto un invito a riconsiderare i confini e i significati, di questa attuale forma di vita, che incombe su ciascuno di noi, segnata da una radicale parabola autistica. La società, in cui viviamo, si sta rapidamente trasformando in una società autistica, (La perdita del contatto con la realtà e la costruzione di una vita interiore propria, che alla realtà viene anteposta, profondo distacco dall’ambiente) perché ci sta facendo smarrire il senso dell’umana solidarietà, che trascende ogni prigione individualistica e che ha bisogno soprattutto di apertura e di speranza, di disponibilità ad ascoltare il grido silenzioso delle esistenze ferite, e di comunicazione autentica, di rimessa in questione continua del senso di ogni azione e di ogni bisogno.

Pensiamo per esempio alla questione dei “lavavetri”, che ad ogni semaforo rosso attentano alla nostra quiete di benestanti armati di spugna e secchiello! L’alzata di scudi contro i lavavetri è simile a tanti altri fenomeni di criminalizzazione della povertà, e allora ce la prendiamo con il graffitaro, con gli zingari, e con i clandestini in generale, alimentando tutta una serie di messaggi culturali di estrema pericolosità: clandestino = criminale!

Si stanno modificando gli ideali di giustizia e il modo di intendere il ruolo dello Stato nella distribuzione della ricchezza e nella garanzia delle parti deboli. C’è purtroppo l’intenzione di abbandonare la proporzione tra l’entità del reato e quello della pena per puntare a fare piazza pulita delle persone che minacciano l’ordine sociale, a toglierli di mezzo in quanto umanità di scarto.

Ci accaniamo di più contro i poveri piuttosto che contro chi sta inquinando il mondo, piuttosto che contro l’usura autorizzata dell’economia globale, piuttosto che contro l’accumulo di ricchezze attraverso la grande evasione fiscale, piuttosto che contro chi sta in Parlamento eletto con i voti delle mafie, e l’elenco è ancora lungo!

Assistiamo oggi al rovesciamento di consolidati principi che, anche attraverso talune norme penali, governavano le relazioni tra individui e stabilivano il confine fra il lecito e l’illecito, utilizzando una precisa scala di valori che affidava alla vita umana un’importanza superiore rispetto alla proprietà privata. La legittima difesa, per esempio, sulla scorta di quanto avviene negli Stati Uniti, protegge ora anche in Italia chi, in casa propria o nel proprio luogo di lavoro, uccide per difendere non la propria vita, o un bene parimenti importante, bensì un semplice bene patrimoniale. E’ stata una scelta politica e giuridica che ha prodotto un’inversione di tendenza rispetto alla quantità di violenza che lo Stato ammetteva nella convivenza civile, ma soprattutto è una scelta che viene ad incidersi sulla scala dei valori e si inserisce nell’ordine delle priorità in cui la vita umana è decisamente scesa di grado.

Stiamo assistendo all’avanzata di una filosofia strisciante della pena e dei suoi scopi che fa del carcere sempre più un luogo di inabilitazione dei condannati, nella quale si inserisce la fatidica “tolleranza zero”, che si rivolge specialmente nei confronti dell’immigrazione, che assieme alla tossicodipendenza è l’altra fonte essenziale della carcerazione. Non hanno più importanza le esistenze in quanto tali, ma si attua un processo di esclusione sociale e il luogo è il carcere, in cui il reo, specie se recidivo e per questo considerato pericoloso per la comunità, deve restare il più a lungo possibile, eventualmente anche per sempre, e ciò indipendentemente dalla gravità del suo reato o dalla sua voglia e capacità di cambiare.

Più di un quarto di questa presenza nelle patrie galere è data dagli stranieri. L’immigrato vive una nostalgia lacerante, dentro a fatti destabilizzanti quali la lontananza dalla patria, il cambiamento di casa, la condizione di sradicamento: scaglie di memorie e ricordi che trascinano con sé solitudini e nostalgie.

Spesso gli extracomunitari che incontriamo nei nostri territori non si riconoscono più in questo tempo e in questo spazio, in questo silenzio e in questo paesaggio, e la perdita della patria, ma anche la perdita della casa in cui abitavano con la loro storia e le proprie memorie, lascia in loro profonde tracce di inquietudine e di smarrimento.

Di sradicamento in sradicamento, in ciascuno di essi l’esiliato va morendo, spossessandosi, sradicandosi. E così, ogni volta che riprende ad andare, si reitera la sua partenza dal luogo d’origine, dalla sua patria e da ogni possibile patria, perdendo a volte il poco che ha nel fuggire la seduzione di una patria che gli si offre, correndo ancora verso altri nuovi sogni; vive nella dimensione di profugo che se ne va senza sapere nemmeno dove. Perché ciò da cui fugge chi all’esilio è promesso, marcato da esso sin da prima, è un dove, un luogo che non diventerà mai il suo.

Nei confronti dei soggetti deboli si sta facendo strada una logica puramente “inabilitante” della pena e del carcere, assolutamente vendicativa e incurante della proporzionalità tra fatto e condanna, volta soltanto all’esclusione di chi viola la legge penale, senza attenzione per un suo possibile recupero. Una filosofia della pena che riempirà sempre di più le carceri, che saranno oltretutto sempre insufficienti, popolate di piccoli criminali di strada, di piccoli spacciatori, ossia, nella maggior parte dei casi: di poveri. Una filosofia impietosa e disumana, oltretutto al soldo di chi della politica dell’edilizia carceraria ne trae e ne trarrà profitto.

Una logica perversa che, pur se in contrasto con la nostra Costituzione, la quale stabilisce che le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato, è stata già introdotta con la legge ex-Cirielli, che riserva ai recidivi o plurirecidivi di reati pene detentive più lunghe, senza sconti o misure alternative che tengano conto di esigenze e capacità riabilitative, e fa proprio, poi, un finalismo della sanzione penale di neutralizzazione e inabilitazione, svuotando altresì buona parte del contenuto la legge Gozzini.

La sostanza vera di questa legge, poi, è la crociata contro la tossicodipendenza, che pur connaturata a reati lievi ha nella recidiva il numero più numeroso di soggetti perché chi delinque per procurarsi la droga non lo fa una sola volta.

In un’ottica che cancella le cause sociali della violazione delle norme penali e che mette con le spalle al muro l’individuo unicamente per le sue “scelte” di vita, un medesimo filo conduttore sembra legare la legittima difesa e la filosofia “debilitante” della pena: chi delinque, anche se per sopravvivere, o a maggior ragione se per sopravvivere, perché continuerà a delinquere, non merita pietà e va eliminato dalla convivenza sociale, e siccome in Italia non è possibile farlo fisicamente l’obiettivo diventa una reclusione più lunga possibile.

Mentre il volontariato, che le carceri le frequenta e incontra le persone negli occhi e nel cuore, si batte in controtendenza, propone cioè luoghi di esecuzione penale che non siano carcere.

Bisogna prevedere luoghi diversi di esecuzione penale per quei soggetti che hanno problematiche di natura sociale e psichica. Cioè luoghi dove possano vivere in spazi aperti, trascorrere le giornate attraverso attività operative e mantenere tra di loro una vita relazionale, con soluzioni appropriate. Pensiamo a: ex psichiatrizzati; senza dimora; ex tossicodipendenti; pedofili; maniaci; destabilizzati psichici. Per molti di loro la previsione, in relazione alle condanne subite, può essere quella della carcerazione a vita (pedofili, maniaci) e per gli altri arresti periodici per ingiurie a pubblico ufficiale e piccoli furti con carcerazioni che si sommano negli anni e destabilizzano sempre di più, tanto che in certi casi avviene la commissione del reato in funzione della necessità di tornare in carcere.

Mantenerli nelle attuali strutture ha solo il significato di perpetrare un atteggiamento vendicativo, togliendo ogni presupposto di futuro nella loro esistenza. Mentre investire nella creazione di luoghi complessi con molti spazi aperti all’interno e all’esterno, dove queste persone possano vivere in modo più dignitoso e rispettoso della loro umanità, può ridare significato all’art. 27 della Costituzione. Per i soggetti più pericolosi, per sé e per gli altri, sarebbe un modo per rimettersi umanamente e psicologicamente in gioco. Per i cosiddetti “drop-out” sarebbero passaggi di mancata libertà da attuare con l’ausilio di personale socio-pedagogico che li aiutino in un percorso di sostegno che sia il presupposto per il rientro nella società libera e appoggiarsi a servizi e strutture che li aiutino a viversi in una logica di “riduzione del danno”.

Senza scopi rieducativi, la cui efficacia viene ormai completamente confutata, il carcere diventa luogo di pura segregazione e vendetta sociale. E’ questo il diritto che vogliamo nell’esecuzione penale?

Un’altro progetto del volontariato è quello rivolto ai “giovani-adulti”, coloro che hanno commesso il reato a 18 anni compiuti.

Per  questi deve essere creato un terzo circuito di esecuzione penale, che potrebbe accoglierli fino a quando non abbiano compiuto i 25 anni. I giovani adulti richiedono un progetto educativo particolare. Tenuto in debito conto la loro età significa costruire percorsi di istruzione, educazione e lavorativi particolari. Il progetto educativo, infatti, ha finalità preventive e vuole evitare scelte recidivanti favorite dal contatto con gli adulti. Vanno separati quindi dagli adulti, ma soprattutto vanno recuperati in fretta senza farli marcire in anni di galera. L’obiettivo è di creare un terzo circuito, costituito con apposita normativa, che preveda anche l’applicazione di quegli interventi e strumenti normativi contenuti nella legislazione penale minorile. C’è da osservare che, comunque, deve mutare la previsione che gli autori di reato da minori restino negli istituti minorili solo fino al ventunesimo anno. Ci sarà un vantaggio anche per loro: quello che, compiuti i 21 anni potranno proseguire la pena non nelle carceri degli adulti, ma in questo circuito più tranquillo per i giovani adulti.

Ci si meraviglia, in genere, del numero alto di reati commessi nell’età giovanile, ma come si fa a pensare che un adolescente possa sempre sfuggire alla tentazione crudele della violenza quando i genitori trascorrono le serate davanti ai televisori ripieni di film di violenza e di alta distruttività?

Cosa dire, del resto, delle emozioni gridate e mistificate, delle emozioni svuotate di ogni interiorità e di ogni discrezione, che infinite trasmissioni televisive fanno ricadere ossessivamente su chiunque le guardi?

C’è solo teatralità e non c’è profondità: si ride continuamente, non si sorride mai, si ride e si piange insieme, non ci si addolora mai, ci si confronta con la gioia o la sofferenza degli altri, senza attenzione e senza rispetto. Ci si emoziona, non perché si provino realmente emozioni, e non perché si desideri essere consolati, e compresi, ma perché, così facendo, ci si avvicina al vortice delle illusioni e delle premiazioni.

Riprendendo il filo dell’analisi sin qui fatta sulla giustizia c’è da puntualizzare che, comunque, le politiche criminali non sono mai slegate dal più ampio contesto in cui si inseriscono, non sono cioè indipendenti dalle politiche sociali, culturali, fiscali o più in generale economiche di un Paese: la criminalità è un fenomeno che viene affrontato operando su tutti questi piani contemporaneamente.

E da chi è costituito in questo momento il popolo delle carceri? La risposta: soprattutto da poveri: 35% stranieri, 30% tossicodipendenti, 15% senza dimora - ex psichiatrizzati - etc., 20% criminalità organizzata e omicidi.

L’attuale crisi dell’ideale rieducativo della pena e la guerra alla droga attraverso lo strumento penale, costituiscono altrettante ragioni valide a spiegare il livello tecnico-giuridico delle scelte di politica criminale. Queste trovano sempre più giustificazione in criteri tendenzialmente asettici o neutri, ricordiamo la famosa affermazione sulla “certezza della pena”, quali l’efficienza del sistema penale, la sua credibilità, la difesa sociale da attuare nei confronti di particolari fatti criminosi che creano forte allarme tra la popolazione, e via dicendo.

L’obiettivo di qualsiasi politica che voglia contrastare la criminalità dovrebbe in ogni caso propendere per l’interesse collettivo alla diminuzione della criminalità stessa, ma al di là dei proclami le scelte legislative e penali per raggiungere questo risultato sono assai diverse a seconda dello schieramento politico che lo propone.

Anche da noi, su imitazione del modello processuale-penalistico americano, a partire dal 1988, si è in buona misura consumata la resa dell’ideale di giustizia e di ricerca della verità storica all’esigenza di efficienza del sistema, attraverso un sempre più ampio accoglimento dell’istituto chiamato “patteggiamento della pena”.

Calandosi in un contesto di accoglimento, sia pur meramente teorico, di una filosofia rieducativa dello strumento penale, poiché nonostante gli importanti mutamenti legislativi occorsi dal 1975 in poi, per mancanza di volontà politica e quindi di fondi necessari, quell’approccio alla pena non ha mai potuto ricevere effettività in Italia, la ex-Cirielli ne scalza oggi le stesse radici ideali, per allinearsi sulle posizioni dominanti di repressione e di pura esclusione del condannato. L’inasprimento delle pene per il recidivo o il plurirecidivo, ottenuto in vari modi, e la limitazione nei suoi confronti della possibilità di far uso di quelle misure alternative al carcere che in fase esecutiva ne incentivavano, o ne dovrebbero incentivare, il reinserimento, esprimono l’accettazione di una logica inabilitativa del pluricondannato, la resa della fiducia nella finalità rieducativa della pena e l’accoglimento di una linea di durezza della pena fine a se stessa.

Come tutte le normative che abbracciano una visione “incapacitante” della pena, anche la ex-Cirielli è destinata ad incrementare notevolmente il numero di carcerati e a riempire le prigioni di piccoli e medi criminali di strada, per non dire di poveri tout-court, per i quali il sistema non ha più soluzioni alternative.

Sulla scia di altre, ben note guerre alla droga, anche il nostro Paese, con la legge n. 49 del 21 febbraio 2006 (cosiddetta Fini-Giovanardi), si è deciso ad inasprire le pene per i reati legati all’uso e allo spaccio di stupefacenti, con l’unico risultato, è ormai risaputo, di far crescere il popolo delle carceri. Stime credibili hanno indicato come la ex-Cirielli e la Fini-Giovanardi insieme produrranno in tempi rapidi un ulteriore incremento della popolazione carceraria italiana di circa 24.000 unità, ossia di un numero di presenze pari quasi a quello interessato dall’ultimo provvedimento di clemenza. Un disastro che l’attuale Governo però potrebbe scongiurare con la loro semplice abrogazione.

In una situazione che al luglio 2006 vedeva la presenza di 61.392 detenuti distribuiti nei 207 istituti con una capacità teorica di contenimento di 42.959 posti letto, e che la legge di indulto ha contribuito a riportare la cifra dei reclusi in equilibrio rispetto alla capienza dei nostri penitenziari, lasciando le cose, legislativamente parlando, così come sono, ci sta facendo rapidamente ripiombare in una nuova insostenibile condizione di sovraffollamento carcerario, siamo intorno a quota 46.000, dando fiato e motivi al partito che vuole la costruzione di nuove prigioni, magari affidandosi ai privati anche nella gestione come avviene già in diversi Paesi, Stati Uniti in testa, un business che darà forza e argomentazioni ai “giustizialisti” dei due schieramenti politici italiani.

La carcerazione di massa, con i suoi miserabili risvolti politici ed economici, è più di una seria minaccia anche per noi, e la logica del mercato che stritola i valori umani in nome del profitto potrebbe prevalere anche in Italia.

Noi conosciamo le cose non solo con la ragione calcolante ma anche con le ragioni del cuore, l’augurio che faccio a tutti noi è che ci sia dato di veder più oltre che non giunga il nostra sapere e un poco più in là dei bastioni del nostro presentimento, perché in questo modo riusciremo a recuperare la fiducia nella possibile realizzazione di un modello sociale che sappia sopportare le proprie iniquità e i propri errori, confrontandoci senza perderci d’animo con il deserto, attualmente imperante, dell’indifferenza e della non partecipazione.

La vita si realizza fino in fondo nei suoi valori, e ogni vita trova in sé il suo appagamento esistenziale, solo se alla vita, a ogni esistenza, è data la possibilità di memoria. Nella opportunità di muoversi dentro spazi di libertà e dignità, indipendentemente dallo stato fisico, psichico ed etnico, in situazioni di accoglienza di esseri umani verso altri esseri umani, nel rispetto contro la sopraffazione, nel dialogo e nell’accettazione di possibili, eventuali e terribili errori. In un mondo dove tutto possa realizzarsi dentro una realtà che sappia affrontare e confinare gli egoismi e i soprusi, riducendo il più possibile le ingiustizie, ridando significato e verità a qualcosa che oggi è diventata solo utopia e idealità come è la giustizia, un vestito che possa essere indossato da tutte le taglie.

E l’augurio finale è che anche noi operatori del sociale, volontari o no, sappiamo superare le nostre distanze culturali e i nostri personalismi, per essere più uniti che mai nel difendere strenuamente i diritti dei più deboli, mantenendo quel ruolo illuminato e profetico che possa segnare il progresso dell’umanità, ultimo bastione di un comune desiderio di liberazione, per costruire insieme quelle alternative di pace alle tragedie mai completamente debellate ed ancora in essere come: i campi di concentramento, le armi nucleari, i genocidi, la schiavitù, l’apartheid, etc., per arrivare alle carceri e ai centri di permanenza temporanei nostrani. Riappropriamoci della nostra capacità di indignazione, lontani da interessi strumentali, per costruire insieme una società dove i luoghi del possibile diventano reali, per dirla con San Francesco “contrapponendo la gioia di essere alla miseria del potere”.

 
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