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GIUSTIZIA: SUL PROGETTO DI GRADUALE SUPERAMENTO DEGLI OPG

 

La presidente del Seac-Coordinamento Enti e Associazioni di volontariato penitenziario, Elisabetta Laganà, interviene nel dibattito sugli Ospedali Psichiatrici Giudiziari a trent’anni dalla Legge 180.

 

Si celebrano in questi giorni i trent’anni della legge 180: in realtà questa legge è tronca senza il superamento degli Opg. Il concetto di pericolosità per malattia mentale in questi anni è rimasto presente tra le righe anche per la presenza degli Opg e ha contribuito e contribuisce a confondere due concetti, che invece vanno nettamente separati: la pericolosità sociale, che richiede misure di sicurezza, e la pericolosità per malattia mentale, che non esiste, se si attuano misure di cura.

Il passaggio della sanità carceraria alla sanità pubblica costituisce la possibilità di soluzione del nodo Opg. Lo realizza nella misura in cui si abolisce ogni ipotesi di struttura intermedia che contenga ipotesi più o meno custodialistiche e più o meno carcerarie. È la sanità del territorio, del distretto, che deve assumere un ruolo diretto nella cura del paziente. Questa strada è stata percorsa da alcune realtà (Trieste) e da molti anni e testimonia la fattibilità e la semplicità del percorso (sia nella dimissione dall’Opg, sia nell’affido ai Csm per evitare l’internamento negli Opg). Al nostro ultimo convegno nazionale Seac del dicembre 2007, Giuseppe dell’Acqua, direttore del Dsm di Trieste ha affermato che negli Opg nessun triestino è internato in Opg. Dichiarazione confermata da Giovanni Tamburino, presidente del Coordinamento Magistrati di Sorveglianza. In un altro contesto (a Matera) da vari anni alcuni psichiatri di buona volontà hanno deciso di occuparsi del loro carcere. La loro assidua frequentazione ha permesso di evitare invii in Opg.

È illusorio ritenere quindi che il superamento dell’Opg sia un semplice problema di ingegneria istituzionale, operato da decisioni di vertice. La presa in carico di un paziente grave, che ha alle spalle acting out e che ha incorporato l’idea della violenza, attraverso una storia personale fatta di violenze agite e subite, non è facile. Occorre che la sua presa in carico sia reale e impegnativa, agita da alta professionalità.

Occorre che chi la compie partecipi con convinzione al progetto di abilitazione (non di riabilitazione che è invece un concetto astratto e contraddittorio: non esiste una idea di normalità perduta a cui occorre tornare!). Occorre che il Csm senta questo compito come una sfida, una priorità, una cartina di tornasole sulla qualità delle sue prestazioni. Infatti molti Csm operano nella quotidianità non secondo un concetto di "care" (prendersi carico di), bensì secondo un concetto di "cure" (trattamento con prestazioni di cura).

Ciò accade peraltro non sempre per loro responsabilità, ma anche per la logica aziendalistica dominante, che costoro subiscono. La presa in carico del paziente difficile, contrariamente al pensiero comune degli operatori, non costituisce una sottrazione di tempo necessario agli altri pazienti, al contrario costituisce una possibilità di elevare la qualità complessiva del servizio. Per avere un riscontro della credibilità del processo, bisognerebbe che i Csm spontaneamente spingessero per assumersi il compito dell’inclusione sociale del paziente, piuttosto che essere costretti a farlo da decisioni di vertice.

La capacità di sciogliere il nodo dell’Opg ripropone l’antinomia fra psichiatria e salute mentale. Con tutte le debite diversificazioni non possiamo operare come se il superamento dell’Opg costituisse una nuova forma di indulto, Bisogna creare le condizioni perché l’inserimento del paziente difficile abbia gli strumenti sociali per realizzarsi. Occorre creare/attivare una rete sociale in grado di esprimere solidarietà/presa in carico.

Questo compito non può essere delegato a un servizio specialistico - quello psichiatrico - e nemmeno al solo mondo della sanità. È un problema che coinvolge l’intera comunità locale, è una prova di democrazia, di cittadinanza. In questa prospettiva il volontariato delle carceri, se stimolato, se richiesto, potrà/dovrà svolgere una funzione importante, nell’attivare la propria rete sociale.

Si tratta di un ruolo non di semplice assistenza e supporto, ma di vero protagonismo, naturalmente insieme ai tanti attori, istituzionali e non, necessari a questo processo. Si tratta in sostanza di rendere una comunità "competente", in grado di prendersi carico dei suoi membri, senza delegare, separare, ghettizzare, ma utilizzando invece al meglio le sue risorse, aiutate in questo compito dalla professionalità e competenza degli esperti.

Pochi casi e luoghi dimostrano come già oggi si possa fare a meno degli Opg o ridurre fortemente l’uso e la durata delle misure di sicurezza; per lo più prevale un ripetersi per inerzia di vecchi automatismi anche se, fortunatamente, le sentenze della Corte Costituzionale emesse dopo l’approvazione della legge 180 hanno cancellato alcuni dei meccanismi peggiori o ne hanno indotto la modifica. Quindi, pur senza una vera ridefinizione normativa si è mosso un processo di riforma che ha creato le condizioni per la riduzione degli ingressi. Il punto è che non sempre le possibilità date dalle norme vengono colte.

Pur senza smettere di indignarsi per la situazione di contenimento degli internati, è necessario ragionare in termini più allargati per evitare di imputare interamente agli Opg la responsabilità della situazione attuale, che vanno ridistribuite nel sistema più complesso: magistratura di sorveglianza, servizi di salute mentale, amministrazione penitenziaria. Dati abbastanza recenti indicano che circa la metà degli internati ha commesso reati minori., e sono stati condannati alla misura più bassa cioè 2 anni.

Dunque, una metà degli internati ha commesso, in situazioni di sofferenza, dei reati minori che, se non sottoposti al giudizio di non imputabilità, gli avrebbero permesso di scontare una carcerazione più breve. Ci si potrebbe chiedere quanta parte di quella metà degli internati avrebbe potuto evitare l’invio automatico in Opg se i servizi di salute mentale e la magistratura si fossero mesi a lavorare insieme.

Sappiamo che le proroghe date dalla magistratura, come tutti i direttori degli Opg sostengono, sono dovute, più che al perdurare della malattia e della pericolosità, al fatto che i servizi di salute mentale sono refrattari ad occuparsi di queste persone. Agli occhi del magistrato, quindi, l’Opg risulta essere la sola risposta disponibile. Ma a questo punto la questione va allargata sulla capacità di dare risposte politiche e sociali orientate in termini di diritti, di nuovo orientamento delle istituzioni.

Come spesso avviene quando si analizza la composizione della popolazione ospitata dalle istituzioni totali, capita di osservare che è prevalentemente costituita da soggetti che provengono da situazioni penalizzate di partenza; che, per capirci, non hanno avuto sufficiente potere sociale o economico, condizioni necessarie per poter accedere ad alternative meno drammatiche.

Come sempre, la forbice economica che separa chi ha da chi ha meno, poco o nulla decide del destino e dei diritti dei soggetti, sulle possibilità di poter usufruire di una tutela della salute fisica e mentale che restituisca dignità alla persona e alla malattia. Parallelamente a quanto sostenuto per la "normale" detenzione, anche per gli Opg il passaggio dal penale al sociale richiede pratiche di sostegno e di integrazione territoriale, diversa organizzazione dei servizi, distribuzione delle opportunità e delle risorse economiche.

La cosa necessaria è che si faccia presto. Tanti volontari presenti quotidianamente in queste strutture raccolgono molte storie di vite bruciate, storie taglienti come lame, principalmente per chi le ha vissute ma anche per chi crede che la riabilitazione sia qualcosa di diverso dalle strutture attuali. Siamo del parere che è il momento di stringere tutte le energie e le idee che sostengono questo desiderio di ridare futuro, dignità e voce agli internati: operatori della salute mentale, della magistratura, dell’associazionismo, del volontariato, politici ed amministratori sono disposti ad impegnarsi in questa direzione sostenendo con forza l’idea del cambiamento. Insieme alle altre istituzioni, il volontariato può rendersi responsabile di una giusta informazione sul problema, per evitare l’oscillazione della cittadinanza tra il la preoccupazione per la sicurezza ed il pietismo per le drammatiche storie dei reclusi. Dobbiamo, responsabilmente, denunciare l’anacronismo di questa istituzione portando la realtà di pratiche buone e possibili.

 

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