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IL FUTURO DEL VOLONTARIATO, TRA BUONE AZIONI E RAPPRESENTANZA 

                  

In occasione della presentazione dell'iniziativa del Celivo della "Carta della rappresentanza", mappa per l'interazione del volontariato, Livio Ferrari ha prodotto una riflessione che vuole guardare più in là degli intenti ideali e darsi degli obiettivi che siano incisivi ed efficaci per il futuro del volontariato tutto, per quello che serve e rappresenta.

 

RIFLESSIONI SULLA “CARTA DELLA RAPPRESENTANZA”

Per decenni il volontariato e il terzo settore si sono attivati a costruire tavoli di aggregazione e rappresentanza, dai più datati come quello del Seac negli anni sessanta, a quelli più recenti degli anni novanta della Convol, del Forum Terzo Settore, della CNVG, etc. in una logica di confronto e dialogo con le istituzioni nazionali e locali. Protocolli e documenti d’intenti firmati ai vari livelli hanno prodotto la sensazione e la speranza che un poco alla volta l’incisività di questa presenza avrebbe potuto modificare le scelte politiche che sarebbero state attuate nel sociale.
La nascita e il successivo consolidamento dei Centri di Servizio per il Volontariato ha prodotto, anche se non tutti ne hanno colto le modificazioni, un depauperimento della forza contrattuale che sembrava, ripeto “sembrava”, avesse assunto il mondo dell’impegno sociale organizzato. Questo perché ha costretto il volontariato a produrre sempre più progetti per avere i finanziamenti necessari ad alimentare attività di servizio nei territori, quindi ha da una parte distolto gli stessi dall’impegno politico e di rappresentanza che doveva invece viaggiare pari pari e dall’altra ha ridimensionato una contrattualità che per il condizionamento economico che produce lega il volontariato, in modo sempre più “capestro”, alle scelte del potere pubblico.
Lo scenario politico di questi ultimi anni ha poi dato segnali inequivocabili che si può costruire solidarietà ad hoc, cioè si possono far nascere nuovi soggetti sociali che producano reddito e relativo consenso elettorale, attraverso la spartizione dell’enorme gettito economico a cui ancora è possibile attingere nel nostro Paese nell’ambito della solidarietà sociale. Oltretutto gli ultimi Governi che si sono alternati hanno, con modalità diverse, tentato di spogliare il volontariato sia economicamente che strutturalmente. Basta ricordare il decreto del Ministro Visco col governo di centro-sinistra, combattuto, per il momento messo nella condizione di non nuocere, ma ancora nella possibilità di realizzarsi e diventare deleterio perché lascerebbe con ben poche risorse tutte le associazioni. Poi non credo ci si sia dimenticato il goffo, per fortuna, tentativo della sottosegretaria Sestini col governo di centro-destra di ridurre la gratuità ad impresa ed ingabbiare il volontariato per farlo diventare suddito della politica con una proposta di modifica della Legge 266/91.
Nell’ultimo decennio alcuni soggetti dell’universo sociale hanno redatto varie carte, dei diritti e dei valori del volontariato, e ora vedendo l’iniziativa della “Carta della rappresentanza” ho ritenuto doveroso, per aver partecipato a diversi di questi momenti di costruzione, confronto e lotta per il riconoscimento della dignità del volontariato, esercitandolo da circa vent’anni come pratica quotidiana, esprimere la mia opinione, per quello che potrà servire nell’elaborazione delle future scelte e strategie.
Alla luce di quanto sta avvenendo in Italia, ma anche nel mondo, è chiaro che il modello di Welfare state è andato e sepolto, pur nella fatica di ammetterlo per il senso di fallimento che questo lascia ad intendere, e che invece tutto viaggia sui binari dell’economia di mercato anche nel mondo della solidarietà sociale. La gratuità che incontra la povertà, la cosiddetta mano tesa è un recondito di pochi gruppi periferici di nostalgici e soprattutto di quelle associazioni legate al modello della carità cristiana come parte importante delle espressioni di giustizia. I protocolli siglati negli anni addietro con i vari Ministeri sono oramai solo trofei da sollevare per farsi coraggio e pensare di avere ancora un ruolo e un’autorevolezza che invece non c’è più. I governi nazionali sono oramai tutti al soldo dell’economia che li suggella e li supporta, e i diversi tentativi che il volontariato ha fatto, di volta in volta, a seconda dell’interlocutore, di continuare a difendere i diritti dei più deboli sono naufragati perché non parliamo più la stessa lingua!
E’ sufficiente questo per aver chiaro il fatto che è ora di modificare, in fretta e drasticamente, il nostro modo di essere rappresentanti di un mondo che è diventato ancor più residuale e potrà essere tenuto in considerazione, da coloro che detengono il potere politico ed economico, solo se avrà la capacità di interagire parlando un linguaggio plausibile alle modificazioni avvenute sul piano delle scelte, alcune ancora in corso d’opera, che vanno a privilegiare solo situazioni che si snodano nella logica di “do ut des”. Non serviranno nuove e magari più fantasiose crociate per frenare la deriva verso la povertà, gli Stati Uniti insegnano in questo senso, perché l’economia ci sta sempre più schiacciando in logiche alle quali ritengo faremo molta fatica a riconvertirci.
A scanso di equivoci: attraverso questa analisi non sto assolutamente affermando che dobbiamo sottostare all’assolutismo del denaro e del profitto e mettere in soffitta il nostro ideale di una società più giusta, dove possa essere ridistribuita la ricchezza e salvaguardata la dignità di ogni essere umano, per carità, non mi passa neanche per l’anticamera del cervello e confido di non essere frainteso. Sto esclusivamente dicendo che se non individuiamo percorsi, strategie e progetti che siano in linea, cioè contrattuali, con i nostri interlocutori ci troveremo sempre più emarginati tra gli emarginati, e incapaci di continuare ad essere voce di chi non ha voce.
Quando si dialoga è assolutamente necessario comprendersi, cioè parlare la stessa lingua, e siccome la controparte politica ed economica con cui dovremo confrontarci non ha in genere alcun interesse ad adattarsi al nostro modo di esprimerci è fondamentale che siamo capaci noi di imparare tout court il loro idioma. Cosa intendo dire? Siccome tutto viene visto sotto la lente d’ingrandimento del profitto dobbiamo individuare quali progettualità mettere in campo per essere autorevoli negli investimenti rivolti alle persone in difficoltà e trovare un modo di comunicare la solidarietà, cioè fare informazione, che incida nella cultura sociale e trovi spazio nelle maglie delle lobby che egemonizzano ogni spazio comunicativo sia sulla carta stampata che nei mezzi radiotelevisivi.
Pertanto ritengo sia urgente evitare di perdere ancora tempo in discussioni di ideali e buoni propositi, che in fondo, pur nelle diversità, ci trovano tutti abbastanza in sintonia, per concentrarci su una rivisitazione generale del nostro modo di agire, sia per quanto riguarda l’azione concreta dell’impegno solidale che nelle strategie politiche che lo suffraghino. E per fare questo serve anche un coinvolgimento forte, sin qui mai avvenuto abbastanza, con la base ed individuare nuovi e giovani rappresentanti che sostituiscano volti e idee legati a modelli ormai lontani dalla realtà. Diversi di noi devono divenire importanti fautori di cambiamento per altrettanto nuovi portavoce nazionali, mettendo la nostra esperienza a disposizione a al servizio di chi avrà tempo e voglia per impegnarsi in azioni di rappresentanza al passo coi tempi, perché quanto fatto e costruito sin qui non venga disperso e il nostro Paese continui ad essere anche per il futuro un esempio e un modello di giustizia e pace sociale per il mondo intero.

Livio Ferrari

direttore del Centro Francescano di Ascolto di Rovigo

 

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