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OGGI DROGA VUOL DIRE ANCORA CARCERE

Una riflessione di Leopoldo Grosso, vice presidente del Gruppo Abele, sulla questione dell’ingiustizia che le leggi attuali continuano a perpetrare nei confronti di chi fa uso di sostanze, con il continuo ricorrere alla carcerazione e perciò alla penalizzazione nei confronti di persone già in difficoltà e che necessitano invece di percorsi di sostegno.

 


Il cambiamento della “scena” della droga in questi ultimi vent’anni, per quel che riguarda le sostanze (non più solo di “estraniazione”, come l’eroina, ma di “prestazione”, come cocaina, anfetamine, metanfetamine) e le modalità d’uso (diffusione di un “consumo” sovrapposto al più ristretto ambito delle dipendenze) ha posto sfide che sono state raccolte solo in parte, e in modo spesso frammentario e disorganico.
Ciò è avvenuto per almeno due seri motivi. In primo luogo la contrazione della spesa pubblica, i progressivi “tagli” agli interventi sul sociale ed ai servizi sanitari, che hanno portato a un costante decremento del personale e quindi dell’efficacia di numerosi Sert.
In secondo luogo, il riemergere di una contrapposizione ideologica mai sopita, tesa a negare evidenze scientifiche ormai acquisite e orientata a privilegiare una risposta integralista e “semplificatrice” a fronte della riconosciuta complessità del fenomeno.
La legge Fini-Giovanardi ha aggravato le pene per i reati correlati alla dipendenza, “parificato” in una stessa tabella di gravità l’uso di cannabis, cocaina ed eroina, eliminando distinzioni cliniche e giuridiche, introdotto criteri restrittivi per la determinazione dell’uso personale e, in combinazione con altri dispositivi di legge - in particolare la cosiddetta “ex-Cirielli” - pregiudicato l’ammissione ai percorsi alternativi alla detenzione per le persone recidive.
Effetto diretto di questo ritorno del “penale” è l’affollamento delle carceri. Le persone dipendenti ristrette oggi in carcere per reati correlati all’uso di droga sono tornate ad essere circa un terzo dell’intera popolazione dei detenuti. La portata repressiva della legge ha svelato sia il fallimento di un dispositivo che intende motivare alla cura tramite la carcerazione, sia l’ipocrisia della norma che allarga l’accesso a percorsi alternativi alla detenzione per pene o per cumuli di pene fino a sei anni. Di fatto sono pochissime le persone dipendenti che oggi beneficiano della possibilità di percorsi alternativi alla detenzione. I diritti restano sulla carta (in particolare per chi è più povero di mezzi e strumenti, come le persone dipendenti straniere senza permesso di soggiorno) e il carcere ha ripreso a svolgere una funzione di “discarica” delle problematiche sociali.
Cosa è necessario fare, allora, per invertire la rotta?
Occorre innanzitutto unire alla forza della legge, affinché non rimanga lettera vuota, la determinazione delle organizzazioni del privato sociale e del volontariato nell’esigere il rispetto dei diritti dei detenuti. Le organizzazioni del privato sociale e del volontariato - come già accadde 35 anni fa nella lotta per la 685 - possono fungere da capofila di un movimento in grado di raccogliere le espressioni migliori della sensibilità civile.
Per parte loro, il governo ed il dipartimento antidroga devono rispondere della contraddizione tra gli intenti proclamati dalla legge e un’attenta verifica di esiti che sono andati invece nella direzione opposta.
E’ urgente inoltre modificare la “ex-Cirielli”, quantomeno per i detenuti tossicodipendenti, per i quali la recidiva costituisce pressoché la regola, e bisogna sperimentare programmi di “messa alla prova” per tutta una serie di reati minori legati alla dipendenza, soprattutto per i neo-maggiorenni.
E’ necessario infine mettere a disposizione le risorse necessarie per realizzare programmi di reintegrazione sociale sia per coloro che sono a “fine pena”, sia per coloro che potrebbero beneficiare di misure alternative alla detenzione, per i quali la mancanza di risorse costituisce un diritto negato.
Gli aspetti sociali, relazionali ed educativi, la cui carenza ha segnato tante storie di dipendenza, devono poter poi essere tradotti in interventi ed opportunità. Tutti sono chiamati a contribuire: governo, regioni, asl, enti locali, mondo associativo e volontariato. A beneficiarne sarebbero non solo le persone più fragili ma la collettività. Le risorse sociali, le opportunità di inserimento lavorativo ed abitativo, gli accompagnamenti relazionali non rappresentano solo un atto di giustizia, ma un necessario e intelligente contributo alla sicurezza sociale. Sicurezza che il carcere, da solo, non è in grado di garantire: né per i detenuti, né per i cittadini.

Leopoldo Grosso

Vice presidente del Gruppo Abele

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