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CARCERI. OCCORRE ALZARE LA VOCE
(www.gruppoabele.org)

Esce oggi per le Edizioni Gruppo Abele «Di giustizia e non di vendetta» di Livio Ferrari, fondatore e direttore del Centro francescano di ascolto di Rovigo. Un'analisi della condizione delle carceri italiane viste da chi si spende da anni per i diritti delle persone detenute. Le storie, i dubbi e le proposte affinché la detenzione torni ad essere uno strumento di rieducazione e non di punizione.


Abbiamo intervistato l'autore.


 


Il tuo libro nasce dall'esperienza personale di volontariato nelle carceri italiane e dal tuo impegno per i diritti dei detenuti.

Eppure proprio sul mondo del volontariato in carcere sollevi una serie di obiezioni...

Il volontariato in carcere oggi troppo spesso limita ad una funzione "missionaria" la propria presenza al fianco del detenuto. Ne accoglie i tormenti e le difficoltà, e spesso provvede anche alle sue esigenze materiali, come gli indumenti, supplendo a un servizio che dovrebbe assicurare lo Stato. Ma proprio così finisce, suo malgrado, per diventare un "sedativo" delle tensioni e delle violenze del carcere, per "narcotizzare" il sentimento di ribellione che tutti dovremmo provare per le condizioni disumane in cui versano i detenuti in Italia: centocinquanta morti da inizio anno, oltre cinquanta suicidi. Quando nel 1998 fondammo la "Conferenza nazionale volontariato e giustizia" lo facemmo con l'obiettivo di avere un ruolo politico e sindacale sul tema del carcere e della giustizia in Italia, e furono firmati due importanti protocolli con il Ministero della Giustizia sui temi della detenzione minorile e delle misure alternative. Successivamente, però, la voce delle associazioni di volontariato si è fatta sentire sempre meno, proprio oggi che è più necessario denunciare.

 

Nelle carceri italiane, sovraffollate, le celle si riempiono di persone povere e fragili - in gran parte immigrate e tossicodipendenti - che spesso scontano pene per reati di lieve entità. Come si è arrivati a questo punto?

La globalizzazione, con il suo consumismo e le sue disuguaglianze economiche e sociali lascia fatalmente indietro le persone più fragili. Chi sta ai margini diventa invisibile, o reso tale dalla reclusione. È la logica coltivata da una politica più attenta al penale che al sociale. Lo dimostrano, tra le altre cose, le tante ordinanze che si accaniscono sulle persone più fragili col pretesto del "decoro" delle città. Poi certo ci sono leggi che contribuiscono a riempire il carcere di persone che vivono ai margini, come la Bossi-Fini e il "pacchetto sicurezza" per le persone migranti e la Fini-Giovanardi per le persone tossicodipendenti. Tutto questo, unito alla scarsa applicazione delle misure alternative al carcere, ci ha portato alla situazione attuale.

 

Il carcere in Italia è sempre più inteso come una punizione per chi ha commesso un reato anziché un luogo di riabilitazione, come prevede la Costituzione. Come invertire la tendenza?

Un primo nodo da affrontare è quello dei "giovani-adulti" in carcere. L'attuale ordinamento penitenziario prevede sezioni speciali per i giovani dai 18 ai 23-25 anni, affinché il loro percorso detentivo sia finalizzato alla formazione e alla possibilità, finita la pena, di una vita diversa. Queste sezioni però non ci sono, e dove esistono si riducono a mere divisioni di spazi fisici, mentre sarebbero necessari progetti specifici, integrati con il dipartimento di giustizia minorile. L'altro nodo è quello delle misure alternative al carcere, che spesso vengono concesse solo a chi ha disponibilità economiche per difendersi con maggiore efficacia in sede processuale. Un fronte ulteriore su cui impegnarsi è quello dei detenuti extracomunitari: quando irregolarmente presenti sul territorio, al termine della pena vengono allontanati, vanificando l'obiettivo di rieducazione e reinserimento sociale previsto dalla nostra Costituzione. Per consentire a queste persone di costruire un percorso di integrazione, sarebbe necessario garantire, dopo la pena, un permesso di soggiorno temporaneo: solo così permettiamo all'ex-detenuto di ricominciare una nuova vita nel Paese in cui nel frattempo ha instaurato dei rapporti e messo radici.

 

 

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